Napoli, la beffa della Terra dei fuochi: «Processo troppo lungo, i beni tornano ai Pellini»

Sono stati condannati in via definitiva ma le carte del sequestro restano al palo

Napoli, la beffa della Terra dei fuochi
Dunque, non c’è stato verso: sono stati restituiti i beni ai tre fratelli imprenditori condannati per traffico illecito di rifiuti e disastro ambientale, ritenuti...

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Dunque, non c’è stato verso: sono stati restituiti i beni ai tre fratelli imprenditori condannati per traffico illecito di rifiuti e disastro ambientale, ritenuti responsabili dell’inquinamento di un pezzo di terra dei fuochi. Parliamo di circa duecento milioni di euro, tra conti correnti, appartamenti, terreni e altri beni, che tornano nella disponibilità dei fratelli Giovanni, Cuono e Salvatore Pellini, al termine di un procedimento giudiziario che scandito da sorprese e battute di arresto. Ieri mattina la sesta sezione della Corte di Cassazione (giudice estensore Silvestri), ha disposto «l’annullamento senza rinvio in Corte di Appello del decreto di sequestro (e confisca) impugnato e ha disposto la restituzione dei beni agli aventi diritto».

Un provvedimento che non lascia spazio ad altre soluzioni: l’annullamento è esecutivo, dal momento che non è stato ritenuto necessario un rinvio del fascicolo a un ulteriore processo in Corte di Appello a Napoli. Poche righe che rappresentano una sorta di terremoto giudiziario, che vanifica anni di indagini e un lungo iter processuale a proposito dell’inquinamento del territorio. Ma cosa ha spinto i giudici a firmare la restituzione dei beni a imprenditori condannati in via definitiva per reati ambientali? In attesa di leggere le motivazioni, che verranno depositate nelle prossime settimane, conviene ragionare su cosa è accaduto in questi mesi, tra la Corte di appello di Napoli e le recenti udienze in Cassazione. A determinare la spallata potrebbe essere stato un ritardo nella definizione del processo di appello: un caso di decorrenza dei termini in un procedimento finalizzato a rendere definitiva la confisca dei beni dei Pellini. In sintesi, dopo il decreto di sequestro firmato dai giudici di primo grado, il processo è approdato in appello a Napoli: è qui che i termini sarebbero scaduti, dal momento che la conferma del sequestro è giunta solo lo scorso 19 giugno, vale a dire con largo ritardo rispetto al termine consentito (18 mesi i termini di fase).

Questione di date, di scadenze che hanno fatto i conti con la proroga consentita durante l’emergenza covid, ma che hanno reso inevitabile il provvedimento adottato dai giudici ieri mattina. A sollevare il caso, è stato il penalista napoletano Francesco Picca, già a partire dalla scorsa primavera, di fronte alla girandola di rinvii (e ritardi) che hanno scandito la definizione del secondo grado di giudizio. Poi, lo scorso autunno, il ragionamento della difesa dei Pellini è stato condiviso dal sostituto procuratore generale presso la Cassazione Luigi Giordano, magistrato napoletano in passato al Massimario della Cassazione e fino a qualche anno fa gip del Tribunale di Napoli. Anche nel ragionamento della pubblica accusa, dunque, la questione della decorrenza dei termini è stata centrale: troppo il tempo trascorso tra il primo e il secondo grado, il provvedimento di confisca è arrivato oltre i termini prescritti dal Codice.

Una ricostruzione che ora fa i conti con l’attesa delle motivazioni da parte dei giudici della Suprema corte. Al di là delle poche righe del dispositivo notificato alle parti, si aspetta il ragionamento dei giudici, anche alla luce di un dato: al di là della questione della decorrenza, i difensori dei Pellini – anche in sede di ricorso per Cassazione – hanno comunque insistito sulla estraneità dei tre fratelli imprenditori alle accuse per le quali sono stati condannati. Quanto basta a fare un focus sulla storia giudiziaria dei tre fratelli di Acerra, alla luce delle indagini condotte oltre dieci anni fa dall’allora pm Maria Cristina Ribera, forte del lavoro della Guardia di Finanza. In sintesi, Giovanni, Cuono e Salvatore Pellini sono stati condannati a sette anni di reclusione in via definitiva. Pena scontata, anche grazie al beneficio dell’indulto che ha consentito ai tre fratelli di tornare liberi prima del tempo.

Per i giudici, erano a capo di un impero, quello che da ieri mattina possono tornare a gestire: un tesoro fatto di case, società, aziende, immobili, terreni, finanche elicotteri. Beni che – secondo la sentenza di condanna definitiva – sarebbero provento di attività illecite, legate al traffico e allo sversamento dei rifiuti. Non avrebbero rispettato le procedure in materia ambientale, contribuendo a inquinare un pezzo di territorio tra Acerra e Giugliano. Un’attività illecita che avrebbe provocato conseguenze drammatiche sull’ambiente e sulla popolazione, come raccontano comitati e movimenti civici, a partire dalle madri dei bambini colpiti da malattie provocate dall’inquinamento ambientale.

E sono ancora i movimenti civici, a partire da uno dei loro portavoce Alessandro Cannavacciuolo a invocare interventi tampone: «Chiediamo al procuratore Gratteri di intervenire con una nuova confisca». Stesso discorso da parte del medico Antonio Marfella (legato a una associazione che difende il territorio), che chiede risarcimenti per tutti coloro che si sono ammalati nella terra dei fuochi. Chiede l’intervento del ministro della giustizia Nordio, l’ex ministro all’ambiente Sergio Costa, oggi vicepresidente alla Camera in quota pentastellata, che parla di scandalo e annuncia interpellanze parlamentari. Non si escludono a questo punto verifiche sulla storia del processo beffa, che passa in pochi anni dal maxisequestro del Tribunale misure di prevenzione alla restituzione dei beni per una girandola di rinvii tutta da mettere a fuoco.

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Il Mattino