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C’è un principio generale da applicare nel procedimento per la morte di Mario Paciolla, cooperante trovato privo di vita il 15 luglio 2020 nella sua casa di San Vicente di Caguan (Colombia), con molti segni univoci di un decesso avvenuto non per cause naturali: la morte violenta di una persona, se non è esito di suicidio, lo è di un omicidio.
Della vicenda si sono occupati media italiani e stranieri. Giovane visionario e generoso, Paciolla si era recato nel 2016 in Colombia, volontario di una ONG impegnata nella tutela dei diritti umani, e dal 2018 collaborava con l’ONU.
La guerra civile, indotta dalla guerriglia delle Farc, aveva fatto tanti morti, essendo intrecciata con il narcotraffico e con le condizioni di vita dei contadini dediti alla coltivazione delle piantagioni di coca: non era cessata dopo gli accordi di pace (2016), non accettati da un settore delle Farc e da molti contadini impoveritisi.
I familiari hanno più volte segnalato le gravi lacune delle indagini sulla morte (anzitutto l’alterazione della scena del fatto) e la mancata collaborazione dell’ONU. Alcuni poliziotti sono finiti indagati. I familiari hanno anche sporto denuncia contro funzionari ONU, responsabili della Missione. È possibile (in casa manteneva totale riserbo) che Paciolla abbia avuto rapporti diretti con i gruppi armati e che sia venuto in possesso di informazioni delicate, specie dopo un intervento militare in un campo di dissidenti Farc, cui era seguita la morte, tra gli altri, di sette minorenni e le dimissioni del ministro della difesa.
A novembre 2019 i familiari percepirono la sua preoccupazione e i timori per la sua sicurezza.
Fin qui punti oscuri delle indagini. C’è un fatto nuovo con il quale bisogna misurarsi. La Procura di Roma ha chiesto al gip di archiviare il procedimento, non essendovi prova certa (questo parrebbe il fulcro della motivazione) che Paciolla sia stato vittima di omicidio. I familiari del giovane si sono opposti all’accoglimento della richiesta e il gip dovrà pronunciarsi. Non convince il punto di vista dell’ufficio inquirente. Le due ipotesi sempre formulabili (suicidio e omicidio) vengono poste sullo stesso piano, e si conclude per l’impossibilità -in assenza di prove a sostegno- di optare per l’una, escludendo l’altra.
La richiesta del pm non è condivisibile perché in contrasto insuperabile con fatti certi, emersi nelle indagini. Nella tarda serata del 14-7-2020 Paciolla inviò più messaggi w app alla madre, cui riferì di difficoltà pratiche nell’acquisto del biglietto aereo. L’ultimo messaggio arrivò alle ore 0,30 italiane. Con esso il giovane la tranquillizzava, scrivendo: “biglietto comprato”.
Alle successive 6,20 italiane la madre gli mandò un w app, rimasto non spuntato. A quell’ora, verosimilmente, Paciolla era già morto, anche se la notizia giunse ai familiari verso le 18,30 del 15-7. Non è pensabile che, nel giro di poche ore, la situazione psichica di Paciolla si sia a tal punto deteriorata da indurlo al suicidio. Decisione che, poche ore prima, non lo sfiorava neppure, essendo egli sul punto di realizzare il progetto al quale, da mesi, pensava: lasciare la Colombia e l’ONU, per uscire da un grave pericolo. Pur rimanendo ombre, vi sono perciò solidi elementi di fatto che fanno ritenere non più in campo l’ipotesi del suicidio.
Non resta, allora, che l’omicidio quale causa della morte violenta di Paciolla, per di più coerente con il contesto emerso (la cancellazione delle tracce sulla scena del fatto). Non basta. Il provvedimento del gip, che ordinasse al pm di procedere per omicidio, potrebbe indurre il Governo italiano a compiere passi importanti per avere dall’ONU una collaborazione maggiore di quella data finora. Verità e giustizia sulla morte di un cittadino italiano all’estero sarebbero, mai come in questo caso, dovute: alla memoria di Mario, giovane rimasto vittima dei suoi ideali, ai suoi familiari e al nostro paese.
* magistrato
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