Lo shanghai tra Chigi e il Quirinale

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Siamo alle strette. Nei primi giorni della settimana che inizia ci dovrà essere il Presidente della Repubblica. Tradotto, considerato che alla prima votazione è del...

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Siamo alle strette. Nei primi giorni della settimana che inizia ci dovrà essere il Presidente della Repubblica. Tradotto, considerato che alla prima votazione è del tutto evidente che non potrà esserci domani.

Salvo miracoli di un’ultima notte troppo breve per portare consiglio, il Presidente dovrà esserci alla quarta votazione, quando ci vorrà la maggioranza più uno dei grandi elettori. Facendo un passo indietro, per i bisogni dell’urgenza che la situazione richiede nell’interesse nazionale, Berlusconi è il primo a farlo intendere con chiarezza. Andare oltre sarebbe probabilmente l’imbocco di un tunnel alla fine del quale ci sarebbero solo le elezioni anticipate nel peggior scenario possibile di instabilità istituzionale. 

Quale che sia la soluzione del dilemma topico del momento: la permanenza di Draghi a Palazzo Chigi o il suo trasloco al Quirinale. Berlusconi sul punto ha detto la sua: è preferibile che Draghi resti a Palazzo Chigi. È un’opinione che pesa, ma non è stata presentata come un vincolo. Anche perché allo stato delle cose nessuno può permettersi precondizioni alla trattativa tra tutte le forze politiche che va ad entrare nel vivo, e senza rete in caso di fallimento. C’è un evidente bisogno (pandemia, crisi sociale, Pnrr, relazioni internazionali) di un segnale di stabilità del sistema Italia. È l’orizzonte imprescindibile di ogni discorso sensato in queste ore. 

Gira molto, non a caso, a narrare la complicazione della situazione, l’immagine dello Shangai, quel gioco dove devi sfilare un bastoncino senza far muovere o collassare il mucchietto di cui fa parte. Assunta questa immagine, per chi ci ha mai giocato, è piuttosto semplice (pura teoria del gioco, ovviamente) capire come si fa a non scompigliare il mucchietto di bastoncini intrecciati. Si toglie il primo bastoncino in cima al mucchietto, e solo quello, sì da non scuotere l’intreccio dei bastoncini sottostanti. Tradotto, si elegge un Presidente della Repubblica che non smuove gli assetti del governo. In questo scenario la prima opzione – la più stabilizzante gli equilibri da qui alla fine naturale della legislatura – è la conferma di Mattarella, di una Presidenza stimatissima e proficua sotto ogni punto di vista in questi difficilissimi sette anni, la cui coda di eccezionalità non è affatto finita. Ma questa conferma, proprio per avere una chance che possa in extremis concretizzarsi, non può essere una conferma a tempo. Se è opinabile per vari aspetti l’opportunità del doppio mandato, quel che non è affatto opinabile è che il mandato non debba nascere con regole di ingaggio assolutamente fuori dallo spirito del dettato costituzionale, e cioè a tempo. Se tra i poteri del Presidente c’è quello informale ma sostanziale della “moral suasion” nei momenti di crisi, quando cioè c’è bisogno di entrare in gioco come “motore di riserva” istituzionale, la domanda da porsi è come potrebbe svolgere questa funzione un motore di riserva la cui benzina nel serbatoio è già a livello di riserva, puntando al massimo a raggiungere la prima stazione di servizio; nel caso di specie, il nostro, le prossime elezioni. 

C’è bisogno di una Presidenza a mandato pieno, pleno iure, come si dice; il che vuol dire con una sua integrità funzionale. Non vorrei essere offensivo, ma insomma per dirla con una battuta non possiamo inventarci, a motivo dell’eccezionalità della situazione, una Presidenza “balneare” sul modello dei governi balneari di decantazione per nuovi equilibri della Prima Repubblica. Anzi l’eccezionalità richiede proprio al Quirinale una personalità di assoluta autorevolezza nella pienezza formale e sostanziale del suo mandato. Sia questa personalità un Mattarella riconfermato, o un profilo di eguale spessore morale e istituzionale. Se nel gioco dello Shangai non si facesse questa mossa centrata sul bastoncino apicale, per non smuovere il resto del mucchietto, dell’intreccio di tutti gli altri, ma fosse necessario sfilare il bastoncino che tiene in equilibrio il resto del sistema, cioè Draghi, il Presidente del Consiglio, qui ci vorrebbe mano ancora più ferma; capace non solo di sfilare dall’intreccio il bastoncino nella posizione più delicata, ma insieme di farlo in modo da non far crollare tutto. Fuor di metafora, garantendo contestualmente a Palazzo Chigi e alla legislatura un assetto stabile e produttivo di “governo” da qui alle prossime elezioni alla loro scadenza naturale. Fin qui la “teoria dei giochi”. Poi c’è la partita da giocare, che tutta un’altra storia. Ma è difficile pensare che la politica italiana, e innanzi tutto il Paese, ne uscirebbero bene se le forze politiche giocassero la loro partita in modo molto difforme da quel che consiglia la “teoria dei giochi”.
 

 

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Il Mattino