Lavoro giovanile e autonomia, la sfida doppia

Lavoro giovanile e autonomia, la sfida doppia
Gli appuntamenti internazionali del nostro governo sono di grande importanza per le implicazioni economiche che ne possono derivare e, più in generale, per l’intera...

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Gli appuntamenti internazionali del nostro governo sono di grande importanza per le implicazioni economiche che ne possono derivare e, più in generale, per l’intera agenda politica. Sono evidenti conferme i numerosi incontri in sede europea, nei Paesi del Nord Africa e negli Stati Uniti. Una vera e propria partita a scacchi che l’esecutivo sta giocando.

L’obiettivo è quello di “spingere” il Paese su un percorso caratterizzato da riforme strutturali, da una crescita economica sostenibile e da una maggiore influenza sulla scena internazionale. In particolare, il premier Meloni sta lavorando sui diversi fronti aperti, “muovendosi” in maniera armonica, così da fare passi in avanti. Alcuni primi risultati si sono già visti a partire dalla definitiva fissazione del prezzo del gas, da una maggiore collegialità europea nel gestire il tema dei migranti e, non meno rilevante, da una bilanciata rimodulazione del Pnrr. Naturalmente, sempre a livello europeo, sono ancora presenti alcune sfide da vincere quali, ad esempio, quella dell’inflazione a due cifre e quella di un più efficace coinvolgimento nella revisione del Patto di stabilità (che vuol dire futura governance europea).

Ma i problemi non finiscono qui: ci sono questioni interne di rilevante importanza che, se non risolte, rischiano di creare nel tempo disagi e confusione tra i cittadini. Il caso più “sentito” è senza dubbio quello riguardante l’avvio del processo di autonomia differenziata a cui, però, occorre aggiungere il tema della disoccupazione (cioè della difficoltà di far incontrare domanda e offerta di lavoro), nonostante oggi i dati registrino una significativa contrazione (tasso al 7,8%, mentre sfiorava il 10% prima del Covid, fonte Istat). Diciamo subito che non intendiamo entrare nelle dinamiche e nelle fibrillazioni politiche, bensì desideriamo limitarci a considerarne gli aspetti economici e sociali e le relative conseguenze. Sull’autonomia differenziata il vero nodo da dipanare non è quello di essere favorevoli o meno (ben venga se riduce i divari territoriali), bensì quello di approvare (in Parlamento) equilibrati criteri sia per definire i livelli essenziali delle prestazioni (Lep), sia per reperire le risorse con cui realizzarli.

In via preliminare possiamo affermare che sul piano intuitivo appare semplice stabilire i Lep, molto meno quando si scende sul piano della misura e, quindi, del confronto tra i soggetti coinvolti (le regioni). Un esempio per chiarire: una delle materie interessate attiene alle grandi reti di trasporto; ebbene, in Italia la quota di rete ferroviaria elettrificata rispetto all’intera rete è pari a poco più del 70%, con il Centro-Nord che si avvicina all’80% (la Liguria più del 95%) e il Sud che non arriva al 60% (con il Molise sotto il 25%, fonte Istat). Appare, quindi, evidente che, al di là del tema concernente le risorse da trovare, nel momento di definire il relativo Lep ci saranno regioni (le meno attrezzate) che desidereranno fissarlo ad un livello sufficientemente alto (diciamo intorno alla media), mentre le altre tenderanno a mantenere un profilo basso; il rischio è di alimentare profondi contrasti, compromettendo la possibilità di raggiungere un risultato condiviso su una materia così sensibile. Altrettanto complesso da trattare è il tema del lavoro dove si “intrecciano” diverse problematiche che rendono difficile il cammino verso una sicura collocazione lavorativa: esse vanno da una scarsa presenza di determinate figure professionali da inserire nell’attuale sistema produttivo (e dei servizi) alle basse retribuzioni che “frenano”, soprattutto i giovani, ad accettare lavori ritenuti non adeguati alle proprie aspettative, fino ad arrivare alla produttività del lavoro, ferma ormai da decenni.

Ma vediamo qualche dato che possa qualificare l’intensità del problema; la riduzione della disoccupazione è, senza dubbio, un risultato importante, da indagare, però, con attenzione: infatti, uscire dalla disoccupazione può significare non solo l’ingresso nel lavoro, ma purtroppo anche uno “scivolamento” nell’inattività (sono circa 13 milioni gli inattivi di cui più del 50% a causa di motivi non riconducibili allo studio oppure alla quiescenza). Un discorso a parte merita, poi, la disoccupazione giovanile: oltre a segnalare il forte ritardo rispetto alla media Ue (più del 22% contro il 13%), nel Paese giustamente è scattato l’allarme per il cosiddetto “inverno demografico” a causa della caduta delle nascite, ma se i giovani fossero il doppio come governeremmo la loro disoccupazione? Non è sufficiente auspicare il ritorno alla “primavera demografica” senza creare le condizioni per dare una valida prospettiva alle giovani generazioni dal punto di vista lavorativo (magari con i fondi del Pnrr) ma, ancor prima, sotto il profilo formativo. Insomma, un’autonomia non divisiva e un mercato del lavoro più organizzato potrebbero dare quella svolta risolutiva che serve al Paese. L’impegno del governo sembra esserci, restiamo in attesa. 

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Il Mattino