Se il Mezzogiorno rischia di diventare una post-nazione

Se il Mezzogiorno rischia di diventare una post-nazione
Tutti i nodi vengono al pettine. Dice la saggezza popolare. E Leonardo Sciascia aggiungeva: “Se c’è il pettine”. E il pettine oggi è rappresentato...

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Tutti i nodi vengono al pettine. Dice la saggezza popolare. E Leonardo Sciascia aggiungeva: “Se c’è il pettine”. E il pettine oggi è rappresentato dagli atti che il governo sta predisponendo per dare corso alla richiesta di tre regioni del Nord di ottenere competenze aggiuntive (rispetto a quelle attuali) e nuove risorse per gestirle. È attorno a queste prossime decisioni che i nodi irrisolti del delicatissimo rapporto tra Nord e Sud si scioglieranno. E potranno sciogliersi questa volta in un modo del tutto traumatico, mettendo da parte ogni forma di equilibrio perseguito finora nei vari momenti storici (e da diverse forze politiche) per far convivere territori diversissimi della stessa nazione. L’Italia. Trovando sempre un minimo comune denominatore dello stare insieme. Oggi questo comune denominatore sembra superfluo alle forze politiche che guidano la nazione, non necessario, non voluto, non auspicato. Rifiutato. Come se alla disumanità spesso ostentata potesse accompagnarsi anche la disunità. Alla “morte del prossimo”, così come ne parla in un suo prezioso libro Luigi Zoja, si vuole aggiungere anche l’eclissi della nazione. 

Il concetto di nazione può declinarsi in tanti modi, se ne possono dare tantissime definizioni, ma in Italia la nazione si regge, fin dalla sua nascita, sul mantenimento di un faticoso equilibrio tra Nord e Sud, altrimenti si passa ad un’altra fase storica della vicenda italiana, cioè al post-nazione. Perché la pretesa di tre regioni che vogliono le competenze attualmente gestite dallo Stato centrale e rivendicano tutte le entrate fiscali che si generano sul loro territorio, dalle mie parti si chiama “fondazione di tre nuovi Stati”, quello della Lombardia, quello del Veneto e quello dell’Emilia Romagna. E tutto il resto diventa Italia secondaria. Esiste più una nazione se alle cinque regioni a statuto speciale si affiancano tre Stati-Regione? No, non esiste. Ne siano consapevoli coloro che si apprestano a decidere, e non disprezzino come un inutile orpello l’equilibrio con cui si è cercato di fare fronte a questa squilibrio territoriale che ci portiamo sulle spalle fin dal 1861.

Nel corso della nostra storia unitaria questo squilibrio non si è risolto ma almeno lo si è ritenuto un problema della nazione, una eredità da superare, un’ingiustizia da riparare. Mai, dico mai, neanche nei momenti peggiori del rapporto Nord-Sud, le forze politiche al governo hanno ritenuto di chiudere la questione del divario territoriale dicendo: “non ci interessa; non ci riguarda; ci sta bene così; consideriamolo un fatto irreversibile”. Anche quando le differenze territoriali si acuivano l’Italia non smetteva di credere che in un futuro si sarebbero ricomposte. Non hanno smesso di crederci le forze politiche a cui nel secondo dopoguerra è stata affidata dagli elettori la delicata questione di gestire (dal governo e dall’opposizione) un paese diviso ideologicamente da fratture nazionali e internazionali che sembravano insuperabili. Tutte le forze dell’arco costituzionale consideravano un impegno d’onore il superamento del divario, anzi un dovere costituzionale visto che era scritto proprio in un articolo di quella magnifica Carta votata alla fine del 1947. Poi nel 2001 la prima svolta: per inseguire la Lega che sembrava inarrestabile al Nord, il centrosinistra, e in particolare il Pd, ha ritenuto di guarire con la “omeopatia istituzionale” il disamore per la nazione (in alcuni casi di vero e proprio odio) che la Lega stava coltivando (ed elettoralmente incassando) nei territori settentrionali. L’approvazione del federalismo, la cancellazione della parola Mezzogiorno dalla Costituzione, la possibilità di un regionalismo differenziato, sono un capolavoro di autogol da studiare nei manuali di politica. Inseguire l’avversario sul suo terreno può dimostrasi disastroso sia dal punto di vista della strategia militare e ancora di più di quella politica. In Italia la legittimazione del divario territoriale, la sua consacrazione, la sua eterizzazione, non è stata mai linea politica di un governo in carica. Anche quando la Lega si è affacciata per la prima volta alla guida del Paese è stata contenuta nelle sue rivendicazioni sia da Forza Italia sia dagli ex missini. E oggi, invece, che si è tramutata in forza nazionale, anzi nazionalista, oggi che ha assunto tutte le stimmate del carattere nazionale (compreso il trasformismo), oggi che riceve voti in Abruzzo come se si fosse in Lombardia o in Veneto, si concede l’affondo finale all’unità della nazione per via subdola e semiclandestina. Insomma, ciò che non ha potuto ottenere quando era una forza secessionista, l’ottiene oggi che si è trasformata in forza italianissima. E lo ottiene stando al governo con un movimento a spiccato insediamento meridionale. I Cinquestelle stanno permettendo alla Lega ciò che né Berlusconi né Fini le hanno mai permesso. Paradossi della politica. E per ottenere cosa? il reddito di cittadinanza. Quanto vale finanziariamente il reddito di cittadinanza? Sette miliardi nel 2019, e poco più di 8 miliardi nei due anni successivi. E quanto valgono le richieste delle tre regioni “diversamente italiane”? Se si applicasse la richiesta del Veneto (mantenere sul proprio territorio il 90% del residuo fiscale) le tre Regioni otterrebbero 67 miliardi di euro e 242 milioni all’anno, se il calcolo lo si fa senza interessi, e 60 miliardi e 486 milioni se si conteggiano gli interessi, secondo i dati che Adriano Giannola e Gaetano Stornaiuolo hanno pubblicato sull’ultimo numero della Rivista economica del Mezzogiorno. Ammesso che sia la metà (30 miliardi di euro), ammesso che sia un terzo (15 miliardi di euro all’anno), sono soldi in meno per le altre regioni che non hanno un residuo fiscale positivo, cioè tutte le regioni meridionali. Sarebbe la più radicale messa in discussione dei principi che regolano una nazione diversamente sviluppata e con uno standard di servizi assolutamente incomparabile. Una differenza di cittadinanza che si accentuerebbe. Ciò che fa la cittadinanza è sì avere un supporto quando non hai nessun reddito, ma anche (se non soprattutto) poter usufruire degli standard di civiltà minima al di là di quanto guadagni e di dove abiti. Vale quello che si è (italiani) rispetto a quello che si ha. 

Con un ultimo paradosso non segnalato adeguatamente: il Sud oggi ha le più alte tasse comunali e i peggiori servizi. Se nel passato il livello inferiore dei servizi comunali era bilanciato da una tassazione irrisoria, oggi si pagano alte tasse per bassissime prestazioni. Pagare di più e avere meno servizi civili, e addirittura stabilire per decreto che chi ne ha di più deve averne ancora di più, è inaccettabile sotto ogni punto di vista. Altrimenti siamo in un’altra Italia. Altrimenti non c’è più l’Italia.
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Il Mattino