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Tra le tante “prime volte” del pontificato di Francesco, occorre ora aggiungere anche l’omelia non pronunciata. È accaduto, com’è noto, alla messa della Domenica delle Palme, la celebrazione d’apertura della Settimana Santa, il tempo liturgico piùsolenne nella vita della Chiesa. Quando, dopo alcuni intensi minuti di raccoglimento, il coro, sul sagrato di San Pietro, ha intonato il Credo, il pensiero è corso subito alla stanchezza del Papa, a un affaticamento che perdura.
E che di fronte ai riti, tutti particolarmente impegnativi del cammino verso la Pasqua, rende del tutto comprensibile qualche alleggerimento di programma. Nessuno si attendeva però il silenzio all’omelia. Non si trattava di un semplice discorso, spesso sostituiti da interventi “a bracciò” o consegnati a mano e dati per letti. E seppure l’omelia non sia di per sé obbligatoria nell’atto celebrativo, la sorpresa è parsa, al momento, più che giustificata.
Senonché appare sempre più chiaro come anche i singoli momenti, in un pontificato quello di Francesco, riescano ad avere un loro particolare significato e respiro. I problemi respiratori in prima istanza e poi il seguito di acciacchi e il peso dell’età: ma quella rinuncia a tenere l’omelia, è parsa aver poco a che fare, stavolta, con una salute che impone freni. Il testo, già pronto e diffuso dalla Sala stampa, poteva ben essere letto dal cardinale celebrante o da un diacono, come è avvenuto più volte nel corso di udienze generali o di gruppo.
E quanto alle omelie in modo specifico, non solo negli ultimissimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II, al quale era quasi venuta a mancare la parola, ma già al tempo del Giubileo del Duemila, la lettura sostitutiva era diventata abituale.
C’era l’altra pandemia, la guerra, le guerre, e il carico micidiale di un attacco terroristico, nella piazza ricca stavolta di colori e inondata dalle palme e dagli addobbi dei fiori di primavera. E il diacono dal sagrato aveva rievocato il racconto della Passione di Marco, Cristo portato davanti al Sinedrio, dileggiato, condotto sulla Croce. Può insorgere il pudore della parola quando la storia incrocia e si fonde così drammaticamente nella vita, e propone scenari lontani, ma che sembrano annullare i tempi. La Passione nella trama del Vangelo, il tormento e il raccapriccio nelle sequenze di un presente annerito dal tramonto di molte speranze.
Quali parole possono dire qualcosa? Un papa può sentirsi sovrastato, e pensare, in quel momento, che “il silenzio è la lingua di Dio”. E che magari proprio quel silenzio possa far breccia nei cuori, come nel suo, affranto per una violenza che non trova argini. Una scelta umile ma a suo modo anche di “protesta” estrema, di grido strozzato, contro un odio inesplicabile e sordo che dilaga ormai senza misura e ritegno. Restò muto e assorto, Francesco, anche difronte a una domanda, proprio sul Venerdì Santo, di fronte ai microfoni di una tv. “Facciamo silenzio” fu la sua prima esortazione, per dar voce al raccoglimento della preghiera, la sera stessa dell’elezione dalla Loggia di San Pietro.
Quell’omelia ora entra in una sequenza che proprio la parola mette da parte, come consapevole resa di fronte all’inesprimibile. Fu eloquente più di mille parole anche il silenzio di un altro papa, Giovanni Paolo II, al quale mancò, pochi giorni prima della morte, la voce per l’ultimo addio dalla finestra dell’Angelus in piazza San Pietro. Anche nella Domenica delle Palme lo scenario è stato quello del maestoso abbraccio del Bernini. La piazza, e San Pietro più di tutte, è il grande teatro della parola. Ma il silenzio di un’omelia è ora una voce ancora più forte.
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