Il suicidio assistito ​e il codice Mussolini

Il suicidio assistito e il codice Mussolini
Dopo il calvario fisico, psicologico e giudiziario dei protagonisti dei casi Englaro, Welby, e DJ Fabio, ritorna il supplizio di Mario, un tetraplegico marchigiano che da tempo ha...

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Dopo il calvario fisico, psicologico e giudiziario dei protagonisti dei casi Englaro, Welby, e DJ Fabio, ritorna il supplizio di Mario, un tetraplegico marchigiano che da tempo ha chiesto di uscire con dignità da un corpo che gli procura solo sofferenza. Quando la sua domanda sembrava accolta, e Mario si era sentito “finalmente libero”, la Regione ha deciso un supplemento di istruttoria, rimandando tutto al Comitato Etico e al Tribunale di Ancona. 


Non sappiamo se questa decisione derivi da un’interpretazione restrittiva della legge, da scrupoli morali o da un mero atteggiamento difensivo. Ma possiamo fare alcune considerazioni generali sul cosiddetto suicidio assistito, e sulla sua attuale evanescente disciplina. 

La questione del suicidio e del diritto alla vita è così sacra che non dovrebbe esser demandata al codice penale, che in realtà condiziona l’intera materia. Basterebbe leggere attentamente il monologo dell’Amleto per capire quanta angoscia esprima e opprima questa risoluzione. Nulla ti aiuta nella scelta: non la ragione, perché la sofferenza ha delle ragioni che la ragione non conosce; non la solidarietà, perché non esiste rimedio a un fardello insopportabile; e nemmeno la fede, perché il credente può pensare che se la vita è un dono di Dio può disporne liberamente, altrimenti non si tratterebbe di un dono, ma di un usufrutto. 

Quanto al codice penale che, ricordiamolo, è del 1930 ed è frutto dell’ideologia fascista, la sua soluzione è singolare.

Il suicidio in quanto tale non è un crimine: non perché il suo autore, morendo, estingua il reato, ma perché non è previsto il tentativo, come invece avviene per l’omicidio, il furto ecc. E’ invece punibile, e assai pesantemente, la sua istigazione e l’agevolazione. Questo perché, come si legge nella relazione di accompagnamento, la vita appartiene allo Stato, e chi aiuta il suicida sottrae alla Patria una risorsa civile, economica e militare. Che dopo oltre 70 anni dalla promulgazione della Costituzione “nata dalla Resistenza” un codice simile sia ancora in vigore, è dimostrazione della stravaganza del nostro intero sistema giuridico. 

In effetti quella norma (l’art. 580) è rimasta tranquillamente in vigore finché qualcuno non si è accorto che la proprio la Costituzione ha sostituito alla preminenza dello Stato quella della persona, attribuendole, all’art. 32, il diritto all’autodeterminazione. Cosicché, dopo una serie di interventi giurisprudenziali, nel 2017 è stato finalmente disciplinato il principio del consenso informato e delle disposizioni di fine vita: se il malato rifiuta le cure, nessuno lo può costringere, e la scelta di vivere o morire dipende solo da lui. La conseguenza, a rigor di logica, dovrebbe essere che la vita è un diritto disponibile. Ma le cose non sono così semplici: il codice civile (anch’esso mussoliniano) dice esattamente il contrario. E quello penale, come s’è visto, è ancora lì. 

Proprio perché la questione è di enorme complessità, nell’inerzia del legislatore è dovuta intervenire la Corte Costituzionale. Lo ha fatto in modo progressivo, allargando, con somma cautela, le maglie della libertà individuale, e invocando, implorando, persino ammonendo il Parlamento a provvedere. Silenzio. Allora, con un’ordinanza cosiddetta interlocutoria del 2018, ha posto delle condizioni per assecondare, senza finire in galera, la volontà del malato: una patologia irreversibile, una grave sofferenza fisica o psicologica, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. L’anno dopo, esasperata dal disinteresse del legislatore, la Corte ha dichiarato in parte incostituzionale l’articolo 580. Rileggere per l’ennesima volta la motivazione di questa sentenza è come riascoltare la Passione secondo San Matteo: si trovano sempre nuove complessità e si intravedono nuovi orizzonti. Da un lato infatti il problema non può esser risolto, anche per ragioni di tecnica redazionale dalla stessa Consulta; e dall’altro non può esser mantenuta una norma incriminatrice che contrasta con la Costituzione. Insomma, questo è compito del Parlamento sovrano. Ma il Parlamento tace. 

La Corte, per riassumere, non ha liberalizzato il suicido assistito, che potrebbe dar luogo - scrive giustamente - ad abusi nei confronti “di persone in condizioni di vulnerabilità”, ma ha indicato una procedura estremamente complessa e non del tutto definita “in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore”. Così i responsabili della Regione Marche, invece di trovarsi davanti una normativa chiara e distinta su cosa si può fare cosa no, hanno esitato. E temiamo che lo abbiano fatto perché c’è sempre rischio che un Pm - come avvenne nel caso Welby - interpretando restrittivamente il codice, li metta tutti sotto inchiesta. E’ quella che si chiama medicina difensiva. 

A questo punto è uno scandalo, un vero scandalo, che il Parlamento non intervenga assumendosi la responsabilità morale e politica di una disciplina in materia. Voltaire diceva che prima di avere i merletti occorre avere la camicia. Ebbene, il Parlamento si è trastullato per mesi sui merletti della legge Zan, lasciando intatta una camicia confezionata da Mussolini. Nel caso specifico, una camicia di forza cucita addosso al povero Mario.

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Il Mattino