Marilicia Salvia, sul Mattino di ieri ha posto, rispetto all’incombente rischio di un fallimento delle Universiadi, un problema cruciale. Napoli non si può amare solo...
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Fin dall’inizio questo evento è apparso, più che una opportunità, una scelta avventata e senza criterio. Compiuta ormai tre anni fa, quando, di fronte alle successive defezioni di Baku, Budapest e infine Brasilia, a causa - si pensi un po’ - degli elevati costi organizzativi, la Federazione internazionale che promuove l’evento approdò, come alla sua ultima spiaggia, a Salerno per incontrare il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, delle Universiadi nessuno si è mai fatto veramente carico in questi anni.
D’altronde, come sia stato possibile pensare che una città come Napoli, con i suoi palesi problemi infrastrutturali, le carenze nel sistema dei trasporti, con una evidente povertà di impianti sportivi diffusi e funzionanti, con rischi finanziari conclamati, come sia stato possibile, dicevo, considerare il capoluogo partenopeo come la sede ideale di un evento di tale portata è, a tutt’oggi, un mistero che si può spiegare solo con l’azzardo politico.
Napoli è in ballo dal 2016, ebbene in tre anni si sono succeduti al comando dell’impresa il presidente della Regione e ben due commissari, i cantieri sono partiti solo con estremo ritardo, non esiste una strategia di marketing e una struttura in grado di gestirla; gli attori economici e istituzionali, industriali, costruttori, commercianti e albergatori, Regione e Comune, procedono in ordine sparso e non senza rimproverarsi a vicenda ritardi, inadempienze, scarsa motivazione. Pochi i soldi a disposizione e spesi male, le scelte adottate assomigliano più ad una toppa messa sui molti buchi delle carenze sportivo impiantistiche di Napoli e Campania che all’organizzazione di un evento internazionale. Strutture vecchie, spesso in un desolante stato di abbandono, verranno recuperate alla meno peggio per supplire alle insufficienze del pur glorioso Centro sportivo universitario, ricco per storia e da solo, fatalmente, incapace di sostenere la portata di un’organizzazione che prevede la partecipazione di centinaia di paesi e migliaia di atleti. Un evento secondo solo all’Olimpiade, si dice. Ma qui mancano residenze universitarie, posti letto, luoghi dove ospitare gli sportivi, tanto che si è dovuto fare ricorso a due navi da crociera, noleggiate a prezzi salatissimi, per alloggiare gli sportivi. Oggi si scopre che manca pure il personale. E allora, giustamente, l’invito ai napoletani a darsi da fare, a rimboccarsi le maniche, come si dice. Nella forma di un patriottismo urbano finalmente attivo e non solo parolaio, da inno calcistico. Bene.
La verità però è che Napoli non ha scelto di ospitare i giochi universitari. Non era nemmeno tra le città candidate. Nessun consenso è stato costruito attorno all’iniziativa. Niente di paragonabile, nemmeno alla lontana, con le olimpiadi di Torino o l’Expo di Milano, dove pure le contestazioni sono state a suo tempo moltissime e molto intense. A Napoli non c’è stata mai nessuna vera discussione pubblica intorno all’evento e mai nessuno ha pensato di organizzarla in questi tre anni. Napoli, piuttosto, ha vinto una strana competizione in cui tutti, giudici e atleti in gara (pochi per la verità) hanno cominciato a correre all’incontrario, trasformando in vincitore l’ignaro cittadino cui è stata letteralmente portata sulla soglia di casa la linea del traguardo.
Eppure una volta assunta la decisione bisognava mettersi al lavoro. Così non è stato. Emerge sul terreno della trentesima edizione delle Universiadi un tratto ormai strutturale della crisi napoletana, l’assenza di un tessuto unitario delle élite cittadine, l’ incapacità di ritrovare al di sotto di quella insocievolezza che dappertutto divide chi ha corposi interessi da far valere uno strato solido, unitario appunto, in cui attori altrimenti in competizione sappiano fare sistema. Al contrario, la città dà quotidianamente di sé lo spettacolo di una estrema divisività, di uno spazio sociale ristretto e altamente rissoso, dove la povertà stessa delle occasioni di sviluppo è causa di contrapposizioni faziose tra soggetti sempre più piccoli dal punto di vista economico e produttivo, disperatamente litigiosi nel tentativo di accaparrarsi risorse e opportunità. Manca, soprattutto, una capacità direttiva superiore, un principio di direzione politica dotato di competenze gestionali moderne, di razionalità programmatoria e, soprattutto, di forza, tale insomma da mettere in riga e disciplinare soggetti disabituati, perché troppo marginali e da troppo tempo, a gestire e realizzare programmi complessi. Una capacità direttiva che con tutta evidenza la città non può esprimere da sé e che pone ancora una volta la questione del suo rapporto con lo Stato centrale.
La caratteristica napoletana è infatti non solo la scarsa efficienza manageriale dei suoi gruppi dirigenti locali ma il fatto che questa incapacità organizzativo-realizzativa si intreccia con una, al contrario, efficacissima capacità interdittiva da parte di poteri locali medi e piccoli, interessi corporati, posizioni di rendita, vera e propria malavita, sempre pronti ad avventarsi su chiunque tenti di bonificare il fitto sottobosco del sottogoverno partenopeo. Per questo la città avrebbe bisogno di un vasto intervento di avocazione al potere centrale di ruoli e funzioni di direzione, gestione e organizzazione che non possono essere lasciate alla mediazione degli interessi locali ma si devono poter muovere sulla base di mandati politici forti e sottratti alle camarille cittadine. Insomma, come sempre, la soluzione del problema della città è una funzione della disponibilità del governo centrale a farsi carico in prima persona della questione napoletana.
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Il Mattino