Questa riflessione è fatta da adulto, credente ed educatore. Mi permetto pertanto di porre una domanda che non nasce dal prurito della semplice curiosità o dal...
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Questa riflessione inoltre è pensata e realizzata dentro la logica e l’esperienza del servizio verso questo pianeta così difficile da inquadrare dentro categorie interpretative utili per proporre strategie e progetti. Un servizio alla vita sempre e comunque, nella consapevolezza che ogni stagione della vita coincide con una stagione dell’educazione e della formazione. Servire la vita, dunque, ha la pretesa di avere un’idea sull’educazione, ma allo stesso tempo servire significa non perdere di vista i luoghi di vita come la strada, la scuola, la famiglia, l’oratorio e persino il “clan”. Insomma, tutto questo per dire che non possiamo ridurre il nostro riflettere sui ragazzi un’occasione per far parlare la “pancia”, la quale non prevede la complessità dei fenomeni e preferisce la semplificazione per dare così condanne e sentenze senza progetto, senza empatia e senza misericordia. Tutto questo lo so è impopolare, non fa voti e nemmeno consenso.
Faccio mia dunque la possibilità di cogliere in ogni incontro diretto o non la sfida che si fa pro-vocazione, nel senso che essa, attraverso l’apparire dell’altro con la propria condizione umana, parla, invoca, respinge e abbraccia. La “pro-vocazione”, inoltre, si pone di fronte ad ogni realtà con due certezze: la prima riguarda la complessità della realtà; la seconda suscita la domanda “tu da che parte stai?”
Le provocazioni dei cosiddetti grandi servono solo per alimentare la distanza e la frustrazione che esiste tra chi sa e chi non sa, tra chi è connesso e chi non lo è. Tra chi può e chi è impedito.
Mi trovavo nel nord Italia per una manifestazione a favore della legalità e della giustizia. Incontrai per tale iniziativa diverse agenzie educative. Tra queste anche una “Casa circondariale”. Al termine dell’incontro, fatto di parole, musica e immagini, tra il saluto affettuoso e riconoscente di quelle persone “rinchiuse” a scontare la condanna, un giovane mi salutò e abbracciandomi mi sussurrò all’orecchio queste parole nella mia lingua napoletana: «Tonì, stamma a sentì: se per caso avesseme nascere nata vota, pe favore. Ncuntrammece primma. Sarà meglio pe tutte e duie. Vorrà di, che io nun stinge in carcere e tu me cuntre altrove». Dobbiamo incontrarci prima che sia troppo tardi nella certezza che non è mai troppo tardi. Perciò, come si fa a non credere nella vita e nel recupero quando chi vive sulla propria pelle la fatica del disagio, dell’emarginazione e della “morte civile” riesce ad intravedere una possibilità veramente altra? Saranno proprio questi vissuti che spesso segnano il cammino di tanti educatori e delle diverse agenzie educative che mi permettono di credere ancora, comunque e dovunque, nella prevenzione. Inoltre, la mia esistenza è segnata dalla vita e dalla santità di un grande educatore: Don Giovanni Bosco. Tutta la sua vicenda umana e cristiana è stata caratterizzata dal rincorrere i ragazzi sulle loro strade, prima che fosse troppo tardi. Dalla corsa si è così passati al rincorrersi. Ciò ha significato un interscambio tale da costruire in tempi lontani dalla moderna pedagogia già momenti elevati di reciprocità in campo educativo. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino