Autonomia, richieste illimitate e Camere ai margini: tutte le trappole della “legge quadro”

Non sarà necessario dimostrare di poter gestire meglio dello Stato le competenze per poterle avere

Autonomia, richieste illimitate e Camere ai margini: tutte le trappole della “legge quadro”
Scritta, rivista, cambiata, emendata più volte. Ma dopo quattro versioni in tre mesi, la legge quadro sull’autonomia approvata ieri dal governo mantiene molte delle...

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Scritta, rivista, cambiata, emendata più volte. Ma dopo quattro versioni in tre mesi, la legge quadro sull’autonomia approvata ieri dal governo mantiene molte delle sue trappole per le Regioni del Centro e del Sud. L’unica vera novità nel testo approvato ieri dal consiglio dei ministri, è che prima di trasferire le funzioni a Veneto e Lombardia, i Lep, i livelli minimi delle prestazioni, non dovranno solo essere «garantiti», ma anche finanziati. Un mezzo passo avanti, ma che non risolve alla radice il problema. Perché a stabilire quali dovranno essere i livelli delle prestazioni in tutto il Paese non sarà il Parlamento, ma il governo, attraverso il lavoro di una cabina di regia tecnico-politica nella quale le istanze degli altri territori potrebbero avere una voce flebile.

Sui Lep restano le storture introdotte con la legge di Bilancio dello scorso anno. Saranno approvati con Dpcm, dei decreti del presidente del Consiglio. Atti amministrativi che non potranno essere modificati dalle Camere e non potranno essere impugnati davanti alla Corte Costituzionale. E fondamentale sarà capire quali parametri verranno usati per stabilire i «fabbisogni standard», ossia i parametri che saranno usati per finanziare i Lep. Nelle trattative “segrete” del 2019, le Regioni del Nord avevano suggerito che il parametro fosse la popolazione residente ponderata per il gettito tributario maturato nella Regione. Avrebbe significato dare più soldi a chi già ne ha di più. Il pericolo, insomma, non è ancora scampato. 

 

 

LE FALLE

Ma le falle nel provvedimento sono molte. Una questione riguarda le materie che possono essere chieste: le ventitré elencate dalla Costituzione. La legge quadro sull’autonomia consentirà a Veneto e Lombardia di chiederle tutte. E senza la necessità di dover motivare il perché pretendono di gestire in loco determinate funzioni dello Stato. Non c’è neppure la necessità di dimostrare quali vantaggi questo travaso di competenze dal Centro alla periferia comporterebbe. Gli studi preliminari commissionati dai governi precedenti, come quello della Commissione Caravita, avevano suggerito di tenere fuori dall’autonomia differenziata alcune materie, come la scuola. Non più tardi di ieri la Fondazione Gimbe ha chiesto di non procedere nemmeno al trasferimento di altre competenze in materia di Sanità alle Regioni per non aumentare le diseguaglianze tra i cittadini (si veda altro articolo in pagina). Ma pesanti dubbi ci sono anche su una serie di altre competenze che Veneto e Lombardia si apprestano a chiedere, come per esempio la regolazione delle grandi reti energetiche nazionali. Una evidente contraddizione in una fase storica come quella attuale in cui le forniture di gas sono una questione di emergenza nazionale e non un problema “locale”. 

IL PASSAGGIO

Al controllo parlamentare, poi, rischia di sfuggire tutto il «cuore» dell’autonomia. Il Parlamento è di fatto tagliato fuori nella fase di definizione delle intese. La trattativa tra lo Stato e le Regioni sarà affidata ad una commissione paritetica che sarà guidata per lo Stato dal ministro per gli Affari regionali. Sarà questa Commissione a regolare le questioni più delicate del trasferimento delle materie, dalla quantificazione delle risorse finanziarie e umane da passare alle Regioni, al meccanismo di finanziamento delle spese che le stesse Regioni dovranno sostenere per quelle funzioni. L’intenzione è quella di mantenere sul territorio una quota dell’Irpef maturata nella Regione stessa. Le implicazioni che questo passaggio avrà sul bilancio dello Stato potrebbero non essere marginali. 

Il Parlamento potrà esprimersi sulle intese entro 60 giorni con un «atto di indirizzo». Potrà cioè indicare al governo quali punti andrebbero modificati, ma non potrà farlo direttamente. Il governo dovrà comunque riaprire il tavolo della trattativa con la Regione, che dovrà comunque accettare le eventuali modifiche “proposte” dal Parlamento. Ma se decidesse di opporre un no, l’iter dell’Autonomia potrebbe comunque andare avanti. A quel punto la legge di ratifica andrebbe alle Camere che potrebbero solo approvare tutto il pacchetto o rigettarlo.

 


 

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Il Mattino