«Hanno chiamato subito i miei per avvertirmi di quello che era successo ed evitare che mi preoccupassi. Inizialmente si era pensato a un forte terremoto. Poi...». Ali...
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Cosa pensa di quel che è accaduto?
«E’ come se Beirut fosse tornata indietro di 50 anni. Da ieri provo a raccogliere le idee, a controllare le emozioni, ma faccio ancora molta fatica. Certo, le considerazioni da fare sarebbero tante».
Proviamo a metterne insieme qualcuna.
«Nella zona colpita vive il 45% dei ricchi cristiani e il 45% dei ricchi sunniti che muovono l’economia del Paese. Un colpo durissimo per il Libano».
Dunque potrebbe non trattarsi di una casualità, di un incidente, come si è detto in un primo momento?
«Non abbiamo ancora elementi certi per dirlo, ma la prima responsabilità di ciò che è accaduto è da attribuire alla classe politica locale».
In che senso?
«Il materiale esploso, parecchie tonnellate di acido nitrico, proveniva da un carico di armi sequestrato dai servizi segreti libanesi nel 2014 e diretto in Siria. Era a bordo di una nave. Poi, nel timore che potesse affondare, fu custodito in quell’hangar del porto. In una zona densamente popolata e, come dicevo, cuore del settore economico e finanziario di Beirut».
Quindi non si sente di escludere la mano esterna?
«I primi a fare del male al Libano sono stati i libanesi con questo comportamento irresponsabile. Non ho ancora la mente lucida per dire se si può parlare di attentato. Fino a questa mattina, quando in tv ho ascoltato uno specialista che si è occupato della demolizione del ponte Morandi, a Genova».
Cosa l’ha colpita di questa intervista?
«Ha spiegato che per fare esplodere una quantità enorme di esplosiva come quella occorrono degli inneschi. Più di uno e sistemati in modo strategico, da specialisti. In mattinata mi sono arrivate anche delle foto che mostrano dei rottami di missili sul luogo del disastro. Ma siamo nell’epoca delle fake news, sul web gira di tutto e bisogna stare attenti a queste cose. Occorrerà aspettare».
La guerra civile che ha insanguinato il Libano dal 1975 al 1990. I pessimi rapporti di vicinato con Israele. Cosa ricorda di quegli anni?
«Il Libano di 50 anni fa era una terra felice, il paradiso prima della guerra. Io provengo da una famiglia umile, ceto medio basso, ma che viveva in un clima di serenità in quel periodo. Oggi i miei abitano nella cintura periferica di Beirut. In questi giorni, a causa del caldo, si erano trasferiti in una zona più fresca e distante dalla città. L’esplosione ha scosso i vetri della casa anche lì. Verso il mare l’onda d’urto è arrivata sino a Cipro».
Poi è arrivato l’83.
«Devo tutto al generale Franco Angioni, con cui ho continuato a sentirmi in questi anni. Dopo l’invasione di Israele, nell’82, in Libano erano stati organizzati i campi profughi assegnati all’Italia. Fu lui a farmi arrivare in Abruzzo con destinazione Chieti Scalo. Avevo in tasca solo l’indirizzo di una persona che avrebbe dovuto affittarmi la camera. Niente soldi: facevo il cameriere e studiavo».
Oggi è cambiato tutto per lei.
«Abbiamo messo un annuncio su Facebook per fare sapere che le nostre case in Libano sono a disposizione di chi ha perso tutto. Ora è solo il momento della solidarietà». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino