Non c'è un governo in carica a Londra, ma in calendario delle trattative per il divorzio è definito da mesi senza alcuna possibilità di rinviare le...
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In più di una circostanza, prima del crollo dei consensi alle urne lo scorso 8 agosto, Theresa May aveva detto che «nessun accordo è meglio di un cattivo accordo». Ora non può più ripete il medesimo slogan, neppure a beneficio dell'opinione pubblica interna dopo il disastro d'immagine seguito alla tragedia del rogo londinese. La sua totale assenza di empatia l'ha resa invisa a un'opinione pubblica che ormai misura ogni giorno il peso da pagare per una Brexit voluta per ragioni ideologiche: il settanta per cento dei sudditi della regina, documentano i sondaggi, preferirebbe un diverso premier, persino i tabloid un tempo a lei vicini la definiscono «più gelida di un merluzzo surgelato» e la invitano a lasciare. Ovvio che a Bruxelles si mostrino indisponibili a concessioni. Anche perché la Ue ha stabilito da tempo le priorità su una trattativa che vede Londra in affanno. «Non so cosa siano hard Brexit o soft Brexit. Il Regno Unito ha chiesto di uscire dall'Unione. Metteremo in pratica questo desiderio. Ma non saremo ingenui. Il pragmatismo è la nostra unica bussola», ha chiarito in un'intervista il responsabile Ue del tavolo negoziale. Intanto a Londra i dati economici negativi si fanno preoccupanti: il prodotto interno lordo frena, l'inflazione cresce. Senza che ancora la Gran Bretagna sia ancora uscita dall'Europa, solo sulla base di previsioni negative per il futuro. Come auspicano May e i suoi fedeli a Westminster. Che pero, ad oggi, sono senza una maggioranza parlamentare per formare un governo. E dunque ancora più deboli agli occhi di Bruxelles, oltre che invisi a un elettorato che in caso di ritorno alle urne farebbe prevalere con un ampio margine i laburisti.
Da Edimburgo, intanto, la first minister scozzese continua a chiedere a gran voce un secondo referendum sull'indipendenza da Londra e ha stretto alleanze con gli omologhi di Ulster e Galles, assai poco disponibili a rinunciare ai vantaggi che derivano loro dall'Europa. In Ulster gli unionisti protestanti di cui May ha bisogno per ottenere la maggioranza ai Comuni continuano ad alzare il prezzo mentre i cattolici si oppongono con forza alle richieste dei loro storici antagonisti. A Londra, inoltre, i conservatori inglesi sono visibilmente divisi al loro interno in materia di Brexit e la parte moderata non garantisce sostegno a un eventuale governo privo dei voti per garantirsi una maggioranza di appena due seggi. Il rischio concreto è quello di una frantumazione istituzionale non arrestabile, preludio alla scomparsa del Regno Unito dopo oltre tre secoli. Quello che inizia domani, insomma, è per May un viaggio senza mappe verso l'ignoto. Nulla, sotto il profilo giuridico, impedisce all'esecutivo un ripensamento. Che però la premier tory rifiuta, certa di trarre vantaggi dall'uscita. Se non riuscisse a vincere lo scontro con Bruxelles altri tory più inclini al realismo sono pronti a sostituirla. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino