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A quasi un anno dall’inizio della pandemia, sulle terapie realmente utili per combattere il virus ci sono meno divisioni (spesso più ideologiche che scientifiche) rispetto ai primi tempi, ma la «pillola magica», l’antidoto contro Sars-Cov2 non c’è ancora. Rispetto alla prima ondata, tuttavia, si muore molto meno di Covid-19 perché i medici sanno interpretare i sintomi e i campanelli d’allarme molto prima e in maniera più efficace. Ma se si conosce meglio il comportamento del virus, resta un’incognita la risposta soggettiva alla malattia e ogni caso fa storia a sé.
Siamo in una fase matura della ricerca in cui sono validati diversi protocolli terapeutici, condivisi dalla comunità scientifica di tutto il mondo, da applicare a seconda delle condizioni dei singoli pazienti e quindi in relazione alla gravità dei sintomi. Ogni settimana ricercatori di tutto il mondo pubblicano nuove evidenze, tanto che le più prestigiose rivista scientifiche (Lancet, Nejm, Jama, Bjm, Gruppo Cochrane) hanno raccolto e reso disponibili gratuitamente on line gli articoli sull’epidemia. Archiviate perché poco efficaci le cure «sovraniste», amate dai presidenti Trump e Bolsonaro, a base di clorochina e idrossiclorochina (Plaquenil), così come gli antivirali contro l’Aids, oggi la grande speranza viene dagli anticorpi monoclonali che agiscono in modo «intelligente» contro il virus.
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La sfida più promettente porta la firma italiana del «padre» di molti vaccini, Rino Rappuoli, a capo della ricerca di Glaxo Vaccines e del Monoclonal Antibody Discovery (Mad) Lab della Fondazione Toscana Life Sciences, che ha spiegato «sono un gioiello di innovazione tecnologica, da una parte gli anticorpi monoclonali sono una terapia che permette di guarire dal virus, dall’altra possono essere dati per prevenire l’infezione. Se si somministrano a una persona sana, questa è protetta per 6 mesi». Quindi, se il vaccino impedisce alla malattia di insorgere, questo trattamento invece agisce su due fronti: curativo e preventivo.
L’efficacia di un altro anticorpo monoclonale, il tocilizumab, sperimentato con successo anche al Pascale di Napoli, è stata testata di recente in uno studio randomizzato e controllato che ha coinvolto pazienti covid con febbre, infiltrati polmonari o necessità di ossigeno supplementare. Il trattamento non ha avuto effetti significativi sulla progressione della malattia, sull’indipendenza dall’ossigeno supplementare o sulla morte I risultati su questo farmaco sono dunque contrastanti: secondo alcuni studi riduce l’infiammazione e abbassa il rischio di morte in chi già vi è sottoposto a ventilazione polmonare; secondo altri i risultati con sono significativi. Tocilizumab è già autorizzato negli Usa per contro la tempesta di citochine, la reazione immunitaria eccessiva tipica anche delle fasi critiche dell’infezione. Gli altri protocolli in uso sono diversi a seconda del grado di severità dei sintomi. I pazienti, se presi in tempo, possono essere curati a casa con aspirina, eparina e un tipo di cortisone. Ricordiamo che i corticosteroidi, sono insieme all’anticoagulante eparina il trattamento per eccellenza della malattia. Il desametasone, corticosteroide economico e facile da somministrare, riduce di un terzo la letalità nei pazienti con forme gravi di infezione.
Tra i farmaci usati nelle prime fasi dell’infezione c’è poi l’antibiotico azitromicina, dalle proprietà antinfiammatorie e un’azione antivirale non specifica. Remdesivir e desametasone, i due farmaci validati contro il Covid dalle agenzie regolatrici americane ed europea, hanno benefici nei pazienti ospedalizzati gravi, ma nei pazienti con malattia moderata, il corticosteroide desametasone non è efficace e i dati non sono sufficienti per raccomandare o meno l’uso di routine di remdesivir. In questa rassegna veloce dei principali trattamenti in uso contro il coronavirus, non abbiamo aggiunto la lattoferrina, un integratore ora molto in voga, il cui utilizzo che sta facendo storcere il naso a molti esperti, tra cui Roberto Burioni. Non essendo un farmaco non rientra tra i trattamenti sottoponibili all’Aifa, l’Agenzia del Farmaco. Risultati promettenti sull’uso della lattoferrina erano stati diffusi pre-print a luglio in uno studio effettuato su 32 pazienti dalla dermatologa dell’Università di Tor Vergata, Elena Campione. Intanto, in attesa di dati più solidi, c’è chi ha iniziato a produrre anche in Campania la lattoferrina, nella forma consigliata dalla docente romana.
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