Virus, Massimo Andreoni: «I ricoveri non si sono fermati, dobbiamo resistere 5-6 mesi»

Virus, Massimo Andreoni: «I ricoveri non si sono fermati, dobbiamo resistere 5-6 mesi»
I ricoveri ci sono, non è vero che abbiamo solo a che fare con asintomatici. Diminuiscono i pazienti nelle terapie intensive perché in media i nuovi positivi sono...

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I ricoveri ci sono, non è vero che abbiamo solo a che fare con asintomatici. Diminuiscono i pazienti nelle terapie intensive perché in media i nuovi positivi sono più giovani, ma l’epidemia rischia di raggiungere anche i soggetti fragili. Inoltre, il 50 per cento dei pazienti più gravi quando guarisce, non ritrova subito lo stato di salute che aveva prima di ammalarsi. In sintesi: bisogna essere molto prudenti». Il professor Massimo Andreoni, in prima linea nella battaglia contro Covid-19, è direttore di Malattie infettive del Policlinico Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit).

 
Chi sono i nuovi positivi?
«C’è sicuramente una maggioranza di asintomatici, si trovano con la sierologia o perché contatti di un altro contagiato. Ma non tutti sono senza sintomi. L’incremento dei numeri a macchia d’olio in tutta Italia è preoccupante. E anche il numero dei ricoverati non è basso, solo nel Lazio sono 180. In altri termini: i casi sono sì meno gravi di quelli della prima ondata, ma solo perché sono soggetti più giovani. Di questo passo l’epidemia raggiungerà anche i più fragili e sarà un problema. Il virus non ha modificato le sue caratteristiche».

I pazienti in terapia intensiva però sono pochi.
«Vero. Ma per i ricoverati negli altri reparti, i sintomi sono sempre quelli che ormai conosciamo. Abbiamo imparato a ricoverare i pazienti prima, in modo da evitare che si aggravino. Questo aiuta, ma allo stesso tempo questa recrudescenza preoccupa molto».

A cosa si deve?
«C’è meno attenzione da parte dei cittadini, indubbiamente. E non va bene».

A livello terapeutico l’antivirale Remdesivir sta funzionando?
«Questo è l’unico antivirale, di fatto, che dà risultati. È stato testato su pazienti con la malattia già avanzata, ora lo stiamo sperimentando in fasi precedenti. La mia opinione è che debba essere utilizzato il prima possibile, perché gli effetti del virus sono, nella fase iniziale, rilevanti. Noi a Tor Vergata lo stiamo usando. Però bisogna essere onesti: ancora non abbiamo nel mondo una terapia efficace. Abbiamo migliorato la strategia, ma ancora abbiamo difficoltà nel controllare la malattia nei casi più gravi. Il Remdesivir ha una buona efficacia, ma non è risolutivo».

Tutti dicono: ne usciremo quando avremo il vaccino o gli anticorpi monoclonali. Cosa avremo prima?
«Difficile fare una scommessa, in questo momento appare più vicino il vaccino, secondo me. Gli anticorpi sono a una fase delle sperimentazione iniziale. Abbiamo invece almeno tre vaccini in una fase avanzata di sperimentazione. Ciò che sta succedendo in Italia e nel mondo, dimostra che il vaccino c’è bisogno. In attesa del vaccino bisogna fare molta attenzione, se non vogliamo ricadere nel lockdown».

Potrebbe bastare resistere cinque-sei mesi, il tempo necessario agli scienziati per raggiungere il traguardo?
«Sì, dobbiamo gestire questo periodo di tempo che ci separa dal vaccino o da qualche strategia terapeutica. Abbiamo cinque-sei mesi critici di fronte a noi, dobbiamo resistere. Purtroppo in questa fase estiva, in cui speravamo di avere una tregua, un’eccessiva imprudenza generalizzata, gli assembramenti e il sovraffollamento di alcuni luoghi di cui tanto si parla, non ci stanno aiutando. E abbiamo gli effetti anche dell’arrivo di casi dall’estero, nel mondo la pandemia è al massimo».

Che conseguenze lascia la malattia nei casi più gravi dopo la guarigione?

«Insufficienze respiratorie severe sono rare, ma ci sono. L’astenia profonda, un rapido affaticamento, è presente. Il virus lascia dei postumi che dobbiamo capire meglio, così come dobbiamo comprendere come fare riabilitazione. Tra i casi più gravi, il mancato recupero dello stato di salute precedente alla malattia, c’è nel 50 per cento dei pazienti; conseguenze più serie, come un’insufficienza respiratoria, è nel 10 per cento. Non è una regola assoluta, ci sono soggetti che hanno avuto la malattia in forma lieve, ma stentano a recuperare. Non mancano problemi psicologici e anche psichiatrici». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino