Il conto più salato lo pagano i soliti noti. I giovani, le donne, il Mezzogiorno. Il Rapporto Istat 2020, illustrato dal presidente Gian Carlo Blangiardo e aggiornato ai...
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È il mercato del lavoro, non a caso, il terreno in cui tutto ciò si misura in maniera evidente: i dati 2019 e quelli dei primi mesi 2020, a epidemia in pieno corso, dimostrano che «le donne, insieme ai giovani e ai lavoratori del Mezzogiorno, restano più esposte a una bassa qualità del lavoro: ad essa sono associate retribuzioni inferiori alla media, elevato rischio di perdita del lavoro ed un alto livello di segregazione occupazionale». I numeri e le percentuali? Eccoli, targati ovviamente Istat: «L'eterogeneità territoriale e produttiva del nostro Paese si riflette in maniera marcata sulle retribuzioni nominali dei lavoratori del settore privato, determinando per i lavoratori dipendenti di imprese localizzate nel Mezzogiorno un salario orario inferiore del 7% rispetto alla media nazionale e un differenziale retributivo Nord-Sud pari al 13,1%».
Niente di nuovo, verrebbe da dire, se non fosse proprio la puntuale e perfino aggravata ripetitività di questi dati a fare più male. Perché dietro di essi si legge molto altro. Un livello di irregolarità dell'occupazione, ad esempio, che è «più alto tra le donne, nel Mezzogiorno, tra i lavoratori molto giovani e tra qui più anziani» e che la diffusione dell'epidemia, con la difficoltà di accesso agli ammortizzatori sociali, ha reso ancora più pesante. L'Istat dice che il numero di famiglie che hanno almeno un occupato irregolare è di 2,1 milioni, ovvero circa 6 milioni di individui che rappresentano il 10% della popolazione italiana. Ma «ben la metà di esse include esclusivamente occupati non regolari».
Pesa ancora la mancanza di lavoro al Sud, aggravata da alcuni mesi anche dal tonfo delle attività dei servizi alle imprese che avevano in parte compensato la frenata dell'industria nel 2019. L'Istat conferma che non sono stati ancora recuperati circa 249mila occupati persi durante la crisi 2008-2018. C'entra però anche la disuguaglianza nell'offerta dei servizi per l'infanzia, ad esempio, tra costi eccessivi e offerta dir poco insufficiente: «Il ritardo del Mezzogiorno è evidente analizza il Rapporto Istat -: sommando i posti disponibili nei nidi e nei servizi integrativi, pubblici e privati, mediamente non si arriva a coprire il 15% dei bambini fino a 3 anni di età. Un valore distante dal parametro del 33% fissato nel 2002 in sede Ue come obiettivo per il 2010 e superato i cinque Regioni del centro-Nord».
Il divario, insomma, è ben lungi dall'essere scalfito. Nell'Italia che si è ritrovata coesa nei giorni della pandemia, la scoperta dello smart working non è stata omogenea. Non poteva esserlo: la percentuale di famiglie meridionali che non posseggono un pc o un tablet sfiora ancora il 20%, e sono un terzo i ragazzi meridionali di famiglie con bassa scolarizzazione a non averli mai avuti. La zavorra Sud spicca sempre per numero di giovani disoccupati (il tasso è tre volte superiore al Nord est e doppio rispetto al Centro, con il 63% di disoccupati di lunga durata) e di inattivi. E fenomeni come la dispersione scolastica, ancorché non più motivata da esigenze di lavoro, anche se precario, resistono a tutti i tentativi di voltare pagina: in Campania ad esempio supera ancora il 15% del totale degli studenti in età scolastica.
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La pandemia complica dunque scenari purtroppo già noti. Ma fa suonare anche nuovi campanelli d'allarme per tutto il Paese: il 12% delle aziende, ad esempio, pensa di tagliare posti di lavoro mentre l'incognita liquidità pesa sul futuro di un terzo delle società. E non è finita perché in base ai dati Istat è possibile che il numero dei nuovi nati risulti inferiore a fine anno di 10mila unità mente il tasso di mortalità cresciuto parecchio in alcune provincie del Nord per effetto del contagio, ha costretto gli esperti a rivedere certe previsioni. «In queste zone i dati sull'aspettativa di vita sono tornati a quelli di dieci o di venti anni fa». Occorrerebbero comunque molti più posti letto nelle strutture sanitarie di quelli oggi disponibili, 3,5 ogni mille abitanti mentre la Germania ne ha otto. Sarebbe bene rifletterci ogni volta che si manifesta la tentazione di rinunciare ai fondi del Mes stanziati dall'Ue. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino