Covid, chi sono i nuovi ricoverati in terapia intensiva: «Tra i 40 e i 70 anni, spesso sovrappeso i pazienti più giovani»

Covid, chi sono i nuovi ricoverati in terapia intensiva: «Tra i 40 e i 70 anni, spesso sovrappeso i pazienti più giovani»
Il Sars Cov 2 non sceglie l'ospite in base all'età. E se anche la quota degli asintomatici continua a essere prevalente, in terapia intensiva ci finiscono sia...

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Il Sars Cov 2 non sceglie l'ospite in base all'età. E se anche la quota degli asintomatici continua a essere prevalente, in terapia intensiva ci finiscono sia giovani che anziani. È ancora troppo presto per capire se i nuovi malati abbiano grosse differenze rispetto a quelli che sono riusciti a guarire, ma per i rianimatori di sicuro l'età dei più gravi oggi si è abbassata.

«Quelli che arrivano da noi - spiega Massimo Antonelli, direttore del dipartimento di Anestesia e rianimazione del Policlinico Gemelli di Roma e componente del Cts - sono tutti pazienti che hanno una gravità sostanzialmente identica a quella che vedevamo nei mesi di marzo e aprile. Il virus è lo stesso e lo stesso è il modo con cui colpisce. C'è forse una differenza nel fatto che l'età media è un po' più bassa. Prima vedevamo prevalentemente malati che avevano un'età più avanzata, quelli che noi definiamo più fragili, cioè tra i 65 e gli 85 anni. L'età mediana allora era di 62 anni. Adesso ci ritroviamo oltre a pazienti anziani, anche un folto gruppo di più giovani, tra i 40 e i 70 anni». 

Se è vero che le patologie pregresse incidono come prima nell'aggravamento dei sintomi, a volte però può capitare che finisca intubato anche chi ha uno stato di salute senza particolari criticità. «In alcuni casi non ci sono le patologie pregresse a determinare l'aggravamento - precisa Antonelli - sono persone che stanno apparentemente bene, in altri casi si riscontrano quelle concomitanze che abbiamo osservato anche in passato, per esempio pazienti ipertesi, o spesso diabetici».

La precocità della presa in carico può fare la differenza. «Nei casi più gravi abbiamo notato che, iniziando prontamente con la terapia, abbiamo una risposta che consente di poter avere una durata un po' più breve del decorso, i pazienti cioè riescono a risolvere prima il quadro clinico. Però, in molti altri casi, il miglioramento avviene dopo un periodo di tempo abbastanza lungo, qualche volta 20 giorni».

La situazione nelle terapie intensive comincia a diventare pesante ovunque. In Lombardia dal 20 di febbraio a fine giugno sono stati ricoverati 4600 malati in rianimazione covid. Giacomo Grasselli, responsabile della terapia intensiva adulti del Policlinico di Milano e membro del coordinamento delle terapie intensive della Lombardia, di nuovi casi ne vede arrivare parecchi. E ora teme che la situazione possa diventare davvero insostenibile. «Da noi i malati giovani ci sono stati anche prima. Abbiamo avuto anche trentenni. Adesso di sicuro c'è qualche giovane in più, tantissimi 40enni e 50enni, ma anche 60 e 70enni».

Le caratteristiche di chi finisce in terapia intensiva Grasselli le aveva già osservate e classificate in alcuni studi pubblicati sulle riviste Jama e Lancet. «Il 70 per cento dei malati - spiega - aveva almeno una comorbidità, la maggior parte erano ipertesi, o avevano malattie concomitanti croniche che certamente aumentano il rischio di forme gravi della malattia, come per tutte le patologie. Nei giovani, invece, quello che si osserva anche con i casi gravi dell'influenza oltre che con il Covid è che molti sono in sovrappeso. E proprio per questo spesso acquisiscono una forma grave dell'infezione». 

Che l'età dei pazienti in terapia intensiva sia scesa lo conferma anche Alessandro Vergallo, presidente dell'Aaroi-Emac, l'Associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani Emergenza Area Critica (Aaroi-Emac). «Abbiamo assistito ad un abbassamento di poco meno di 10 anni - sottolinea - ma il dato è poco significativo sotto il profilo dell'andamento dell'infezione, perché la forbice anagrafica è estremamente ampia e va dai 30 ai 90 anni».

Tutta la partita però si gioca ora sulla capacità del sistema di prendersi cura dei pazienti. «All'inizio, nelle regioni del Nord, i malati arrivavano al Pronto soccorso in condizioni disperate e venivano intubati di corsa. Oggi, la precocità della diagnosi consente quantomeno di affrontare i casi in modo più tempestivo. Ma per continuare a farlo, servono subito nuovi posti letto, ma soprattutto medici specialisti».

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Il Mattino