Cultura dello stupro: la normalizzazione della violenza di genere

L'intervista alla giornalista e scrittrice Jennifer Guerra: «Allontaniamoci da pregiudizi e stereotipi»

La normalizzazione della violenza di genere
«Quando si parla di cultura dello stupro si intende dire che la violenza sessuale, e più in generale la violenza sulle donne, non è un fatto eccezionale ma...

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«Quando si parla di cultura dello stupro si intende dire che la violenza sessuale, e più in generale la violenza sulle donne, non è un fatto eccezionale ma è qualcosa di costitutivo della nostra realtà politica, sociale e culturale - afferma la giornalista e scrittrice Jennifer Guerra -. Possiamo visualizzare il problema della violenza di genere come una piramide, dove il  vertice coincide con le forme visibili della violenza, come lo stupro e i femminicidi, mentre alla base c'è una cultura che in qualche modo normalizza questo tipo di violenza, la giustifica o la attenua. Questa cultura è fatta di battute, stereotipi, luoghi comuni e pregiudizi che vengono continuamente alimentati e passati di generazione in generazione».

La descrizione del concetto cultura dello stupro viene attribuita a due prodotti del 1975. Si tratta del libro “Against our will: men, women and rape” di Susan Brownmiller e del documentario di Margaret Lazarus chiamato proprio “Rape culture”. Nel libro l'attivista Brownmiller definisce lo stupro come un «un processo cosciente di intimidazione con cui tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura», un processo che non è legato alla gratificazione e al desiderio sessuale bensì alle dinamiche di potere: gli uomini, stuprando le donne, compiono un atto di controllo su di esse. Il documentario di Lazarus descrive invece il modo in cui lo stupro è rappresentato in varie forme di intrattenimento, tra le quali il cinema. 

«I media fanno parte del nostro sistema culturale quindi anche loro possono farsi portatori di questa cultura - continua Guerra - Ciò avviene in particolare nel modo in cui i casi di violenza sessuale o di genere vengono raccontati, ad esempio ricorrendo alla colpevolizzazione della vittima o cercando delle circostanze che avrebbero potuto evitare la violenza, magari vestendosi in modo diverso, non uscendo la sera e cose di questo tipo. Quando si della responsabilità dei media si fa riferimento quindi del modo in cui essi si fanno carico della narrazione della violenza di genere che va comunicata ma in modo da non alimentare la base della piramide che sostiene la cultura».

La vittimizzazione secondaria instilla nelle vittime di sopruso o di violenza, un senso di colpa e un senso di responsabilità per l'accaduto e nel caso della violenza di genere diventa anche un deterrente per denunciare la l'abuso subito. Espressioni come “se l'è cercata” alimentano la colpevolizzazione, minando la sicurezza e l'autostima della vittima.

«Non c'è una formula magica per combattere la cultura della stupro ma si può provare a responsabilizzarsi, allontanandosi da quei pregiudizi e stereotipi e cercando di promuovere un linguaggio consapevole e che dia voce alle stesse vittime della violenza di genere, spesso ignorate», conclude.

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Il Mattino