Le carceri sono luoghi ideali per l'incubazione e la rapida diffusione delle malattie infettive. Su questo punto gli esperti sono tutti d'accordo. Ambienti chiusi,...
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La questione è esplosa drammaticamente in Italia nelle scorse settimane, ma anche nel resto del mondo si iniziano a prendere misure per provare a contenere la diffusione del virus nelle carceri. Il pericolo riguarda la possibilità che il personale impiegato, guardie, operatori sanitari, personale di altro tipo, possa trasmettere il virus ai detenuti, ponendo le premesse per la trasmissione del contagio a centinaia di persone. Le prigioni cinesi sarebbero state paricolarmente colpite dal Covid-19, ma il problema è emerso anche in Iran, dove il regime ha permesso il rilascio temporaneo di 85mila persone, inclusi prigionieri politici. Nella Repubblica islamica la situazione è molto critica. Il 9 marzo l'Iran ha annunciato la liberazione di 70mila prigionieri come misura contro la diffusione del coronavirus, ma nessuno di questi era priginiero politico. Come scive il New York Times, lo Special Rapporteur per i diritti umani in Iran ha chiesto al governo di Teheran di liberare tutti i prigionieri politici dalle affollate prigioni iraniane. Rehman ha affermaro però che solo chi ha da scontare una pena inferiore a 5 anni è stato liberato, mentre chi ha pene più pesanti è rimasto in cella, compreso chi ha partecipato alle proteste contro il regme degli ultimi mesi. Mercoledì 18 marzo, inoltre, nel Regno Unito è stato registrato il primo caso confermato di coronavirus in un carcere di Manchester. A riferirlo il Guardian.
In Cina la diffusione del coronavirus nelle carceri e nei campi di detenzione è una questione che afferisce, non solo ai diritti umani, ma anche alla credibilità di Pechino sulla scena mondiale. L'opacità e la mancanza di trasparenza sui dati, la comunicazione tardiva delle informazioni sulla diffusione della malattia, anche in relazione alle prigioni, gettano nuove ombre sulla Repubblica Popolare. Secondo la rivista The Diplomat, gli oltre 550 casi di contagio nelle prigioni cinesi hanno svelato le mancanze della Cina nella gestione dell'emergenza, delle crepe preoccupanti nelle misure di contenimento del coronavirus. Molto difficile avere dati aggiornati sulla difusione della malattia nelle prigioni cinesi. Il 26 febbraio il Ministero della Giustizia di Pechino ha diffuso la seconda parte di uno studio su Covid-19 e sistema detentivo. In data 25 febbraio c'erano almeno 555 casi di infezione in cinque carceri di tre province cinesi: Hubei, Shandong e Zhejiang, un numero certamente destinato a salire. Il 26 febbraio la Cina non riferiva di alcun caso di decesso nelle carceri. Il carcere femminile di Wuhan risultava già il più colpito, tanto che il dirigente è stato licenziato. Anche in questo caso la Cina ha informato delle infezioni solo molto tempo dopo i primi casi riscontrati. I media di stato cinesi hanno provveduto ad annunciare il licenziamento degli ufficiali e dei responsabili della giustizia a livello locale, nel tentativo di trovare un colpevole. A preoccupare anche la condizione dell'oltre un milione di uiguri detenuti nei campi di detenzione della regione autonoma dello Xinjiang. Ad Hong Kong, inoltre, riferiscono alcuni media, le detenute sono sfruttate per la produzione di mascherine protettive. Lavoro a basso costo richiesto proprio a chi è più vulnerabile al virus. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino