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Presidenzialismo e Roma Capitale, federalismo fiscale differenziato, revisione del rapporto di preminenza del diritto internazionale su quello nazionale, resurrezione delle province.
Queste potrebbero essere le possibili riforme costituzionali di cui potremmo sentire parlare nella prossima legislatura se il centrodestra superasse la soglia dei due terzi dei parlamentari eletti nelle due Camere. Due terzi: la soglia che la Costituzione indica come quella necessaria perché le riforme costituzionali votate in Parlamento non debbano passare le forche caudine del referendum costituzionale. Due terzi che, con i nuovi numeri di 400 eletti alla Camera e 200 al Senato, significano 267 deputati e 134 senatori.
Sia Youtrend che l’Istituto Cattaneo, nelle ultime ore, hanno evidenziato come per il centrodestra questa soglia di due terzi sia raggiungibile, non facilmente, ma raggiungibile: secondo il Cattaneo, il centrodestra potrebbe conquistare 228 deputati e 117 senatori. Per Youtrend le stime parlano di un centrodestra che può arrivare addirittura a 260 deputati a 136 senatori.
Ma la riforma su Roma Capitale apre la strada ad altre due possibili modifiche. Quella, tanto cara alla Lega, del federalismo fiscale. Che, però, rispetto ai vecchi schemi di una decina di anni fa, verrebbe edulcorato differenziandolo in modo che non si trasformi in una specie di mannaia che premi solo le regioni del Nord, lasciando al sud solo i problemi. Spunta poi l’aspetto sovranità della coalizione. Ovvero mettere mano alla cosiddetta “subordinazione” di alcuni aspetti del diritto nazionale a quello internazionale. Toccare questo tema però aprirebbe un enorme fronte di polemiche interne e con i partner europei. Da ultimo, il centrodestra potrebbe pensare a una riforma che riabiliti le vecchie province, modificandole rispetto a quelle che abbiamo conosciuto prima del loro “superamento” (anche se la Costituzione le prevede ancora). Sulla questione della necessità di condividere con le opposizioni le eventuali riforme, esistono diversi precedenti di riforme fatte “a maggioranza”. Ad esempio, quella del 2001 sul Titolo V e quella sul Senato del 2016. Entrambe però poi sottoposte al vaglio degli elettori con il referendum.
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