Si potrebbe pensare che il tallone d'Achille di frau Merkel siano i bambini. La donna che ha preferito la politica alla maternità e paradossalmente viene chiamata Mutti nomignolo...
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Però, a ben vedere sia la cosiddetta gaffe con la piccola Reem, sia il presunto intenerimento suscitato dalla terribile immagine del bimbo Ailan si possono collocare in un quadro di azioni tutt'altro che emotive, ben soppesate e accuratamente calcolate. Il rimbrotto alla ragazzina palestinese tornò comodo per placare una destra xenofoba e ostile in un momento delicato per la leadership interna. L'apertura delle frontiere fu un messaggio per l'Europa ingessata sull'emergenza immigrazione e insieme un abile gioco di anticipo di fronte alla pressione dei profughi: frau Merkel accolse i rifugiati «migliori», i primi a potersi permettere di fuggire, quelli più facilmente e proficuamente integrabili perché benestanti, forniti di titoli di studio e professionalità utili al mercato del lavoro tedesco.
Con questa strategia, «das Mädchen», la ragazza, soprannominata così quando nel 1990 divenne ministra per le Donne e i Giovani, è diventata davvero Mutti, la madre dei tedeschi in maggioranza fiduciosi nel fatto che lei, dal 2005 tuteli in primo luogo i loro interessi. Ciò rende Angela Merkel, in tempi di crisi del concetto stesso di leader, una specie di creatura mitologica in un'Europa di figuranti: l'abilissima mediatrice capace all'interno di aprire di volta in volta a destra o a sinistra, facendo pesare con energia negli organi comunitari la superiorità economica del suo Paese. Dunque, una maestra in quello che nella biografia a lei dedicata Roberto Brunelli definisce «trasformismo progressista», ma che si potrebbe meglio definire cerchiobottismo lungimirante. E con un simile talento, affinato fin dagli anni della militanza giovanile nel partito Risveglio Democratico poi confluito nella CDU, la kanzlerin si avvia a vincere la tornata elettorale del quarto mandato. Eguagliando il primato di durata del suo pigmalione politico Helmut Kohl, il padre della riunificazione tedesca, e che lei non mancò di tradire: non gli mandò a dire «stai sereno» ma poco ci mancò quando nel 1998, all'indomani di uno scandalo su finanziamenti illeciti, firmò un articolo in cui di fatto ne chiedeva la testa. Oggi la figlia di un pastore protestante e di una insegnante d'inglese e latino, perfetta russofona e con la solita reputazione di secchiona attribuita a tutte le donne di successo, può mettere sul tappeto traguardi accessibili a pochi: un Paese con un tasso di disoccupazione al 5% (quella giovanile all'8%), conti pubblici in ordine, il timone delle politiche comunitarie. Poco trapela di quanto, in ciò, si debba alle riforme impostate da Schröder, ma anche far dimenticare i meriti dei propri predecessori è fattore di abilità politica. Così come lo è la qualità infrequente di parlar chiaro, evitando promesse poco realizzabili: sul reddito universale, frau Merkel ha detto chiaramente di essere scettica, su altri terreni, come i matrimoni gay, ha propiziato l'apposita legge, pur essendosi in passato dichiarata non favorevole.
Ovviamente non manca chi non veda affatto in ciò esempi di Realpolitik ma al contrario di opportunismo, come lo scrittore Peter Schneider: per lui l'abilità della cancelliera consiste solo nel capire con invidiabile tempismo dove soffia il vento della maggioranza.
Il Mattino