Giuseppe Conte sta vivendo una sua fortunata seconda stagione politica. Si è detto che è l'unico premier passato senza soluzione di continuità dal governo...
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Quel che è cambiato, soprattutto, è il posizionamento del premier rispetto ai suoi ministri. Nel governo gialloverde, Conte doveva mediare tra Salvini e Di Maio, ma era catalogato come Cinque Stelle e aveva fuori della porta un pastore tedesco leghista del calibro di Giorgetti.
Oggi è molto più libero. Zingaretti non lo voleva come premier super partes e ha dovuto subirlo, anche per le pressioni del Quirinale e delle cancellerie europee che desideravano chiudere la partita alla svelta e che ne avevano apprezzato le capacità di relazione. A presidiare palazzo Chigi è arrivato per il Pd una vecchia volpe come Franceschini, ma Conte è più forte di prima e soprattutto può approfittare delle difficoltà di Luigi Di Maio, che pure l'ha voluto confermare ad ogni costo. Gli Esteri sono un ministero di grande prestigio, ma sono stati assegnati tradizionalmente a personalità di primo livello estranee al gioco politico quotidiano. Nei 45 governi della Repubblica, gli Andreotti, i Fanfani, i Forlani erano parcheggiati alla Farnesina quando dovevano saltare un giro. Più tardi, soltanto D'Alema e Fini erano uomini di peso, ma erano andati in giro per dimostrare che i comunisti e i fascisti non erano più quelli di una volta. Da oltre dieci anni alla Farnesina non ha messo piede nessun leader. Per un giovane come Di Maio gli Esteri sono una straordinaria finestra sul mondo. Sul mondo, non sull'Italia. Se poi lui volesse far bene anche il ministro per il Commercio con l'Estero che ha tolto allo Sviluppo economico, dovrebbe rientrare in Italia solo per cambiare la biancheria. E questo non è possibile. È bastato infatti che il nostro si allontanasse qualche giorno per l'Assemblea generale dell'Onu perché gli scontenti del Movimento gli organizzassero al Senato una riunione non precisamente amichevole.
Il M5S è una macchina molto accentrata, anche nella comunicazione, e infatti i dissensi sono stati derubricati a contributi costruttivi: linguaggio che non si usava dai tempi delle congiure dorotee. Di Maio ricorda giustamente ai suoi recenti detrattori (molti seccati solo perché rimasti fuori dal governo o non promossi come speravano) che il suo ruolo di capo politico è stato consacrato dall'80 per cento dei voti sulla piattaforma Rousseau. Ma non serve sognare una impossibile riforma del vincolo di mandato o minacciare multe forti e praticamente inesigibili per tenere i parlamentari nel recinto della fedeltà. Di Maio deve riappropriarsi della leadership operativa se vuole contendere a Conte il ruolo di candidato premier di domani sul quale il presidente del Consiglio calibra abilmente ogni mossa. Per questo ieri sera, appena rientrato da New York, ha convocato alla Farnesina tutti i ministri e i vice ministri del Movimento.
Un anno fa Conte girava per le cancellerie internazionali come un curioso esempio delle stravaganze politiche italiane. Oggi «Giuseppi», come l'ha chiamato Trump, gioca in proprio e l'endorsement del presidente americano è un'assicurazione sulla vita. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino