Profughi, un bimbo nella valigia l'immagine della fuga dalla guerra

Profughi, un bimbo nella valigia l'immagine della fuga dalla guerra
Cosa ne sappiamo noi, con i nostri trolley silenziosi e i nostri bambini che giustamente viaggiano su passeggini ipertecnologici, di quel padre che trasporta una valigia marrone...

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Cosa ne sappiamo noi, con i nostri trolley silenziosi e i nostri bambini che giustamente viaggiano su passeggini ipertecnologici, di quel padre che trasporta una valigia marrone senza ruote e fugge dai bombardamenti con il figlioletto dentro?


Dalla valigia spunta solo una parte del corpo, un camiciola celeste, il viso assonnato, gli occhi socchiusi. E ci commuoviamo, condividiamo la sofferenza, nel senso che ripubblichiamo la foto su Facebook e su Twitter. E quasi dimentichiamo che la Siria è a poco più di tre ore di aereo da Roma, che Ghouta, con decine di migliaia di civili in fuga, i mille cittadini già morti, è il nome di una regione che ricorderemo per qualche giorno.

Passeremo ad altro. Ci sarà un'altra foto, un altro bambino, altra sofferenza irripetibile che si ripete di continuo. Vediamo tutto che è come non vedere nulla. Il bimbo della valigia è «un'immagine che racconta più di mille parole - scrive su Twitter l'Unicef - Padre e figlio sono fra le migliaia di civili che hanno potuto abbandonare Hamouria, nella Ghouta orientale».

La tragedia della Siria ha avuto altri bambini protagonisti: settembre 2015, la foto del cadavere di un bimbo di tre anni sulla spiaggia, pantaloncini blu, maglietta rossa, racconta un'altra fuga. Lui era Alan (inizialmente fu chiamato Aylan), era siriano di etnia curda, la famiglia fuggì da Kobane. A Bodrum, in Turchia, tentò di raggiungere l'isola di Kos, in Grecia. Le onde fecero ribaltare la barca, una fotografa turca scattò la foto che per un po' divenne simbolo del dramma dei profughi e dei migranti. Sembrava un'immagine indelebile, tre anni dopo quando parliamo di migranti d'istinto ce ne vengono alla mente altre, molto differenti. 2016, ancora Siria, Aleppo.

 


C'è un altro bambino, Omran, ricoperto di sabbia e sangue, salvato dalle macerie dopo i bombardamenti. Il piccolo nella valigia, il cadavere sulla spiaggia, il bambino ricoperto di sabbia e sangue. Foto. Condividiamo la sofferenza. Sui social. Ma in una civiltà in cui fermare un'immagine e diffonderla è banale, la possibilità che queste immagini restino salde nel flusso della storia si sono affievolite. Tutto è cambiato rispetto al 1972: l'immagine di Kim Phúc, la bimba vietnamita che fugge terrorizzata dopo un attacco con il napalm vicino a Saigon, 46 anni dopo continua a parlarci della guerra del Vietnam.
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Il Mattino