«Attenti, quei no all’accoglienza non sono solo un atto di disobbedienza delle parti più ricche d’Italia, e neanche solo una declinazione regionale della politica...
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Sta parlando dell’Europa?
«Non solo, ma l’Europa è il primo teatro di questa asimmetria. È qui che il dramma dell’immigrazione viene trattato come un aspetto della politica interna degli Stati. Con l’effetto che un’opzione politica piuttosto che un’altra smette di essere valutata per l’impatto che ha sul problema, ma diventa decisiva per le reazioni che produce sull’elettorato. Ci sono molti esempi in questi ultimi mesi che provano questo paradigma».
Ne faccia uno.
«Quando a Bruxelles si è presa la debole decisione di rilanciare la missione Triton nel Mediterraneo, il primo ministro inglese si è subito dichiarato favorevole all’operazione di salvataggio, aggiungendo quasi con sfrontatezza: tanto poi i migranti li portiamo in Italia. Il suo orizzonte dichiarato era l’elettorato interno, a cui intendeva garantire il disimpegno del governo da qualunque responsabilità di accoglienza. Questa strumentalizzazione dell’immigrazione non poteva non ripercuotersi nel nostro Paese. E quindi, preparato come sono a non stupirmi più di nulla, mi aspettavo che il dibattito in Italia si concentrasse sui limiti da imporre al processo migratorio e sulla necessità di assicurare la sicurezza ai nostri cittadini e, ancora, sulla severità delle regole da imporre e far rispettare agli stranieri che vengono qui. Non mi aspettavo però che la questione migratoria diventasse un elemento di frattura dell’identità nazionale. Quello che sta accadendo è inedito nella pur travagliata dialettica nazionale sul tema».
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