Che una campagna elettorale distorca la realtà è fisiologico. Accade anche nei paesi più pragmatici e nelle democrazie più mature. Dopotutto, gli...
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Nei giorni scorsi, per esempio, con una sequenza degna dei peggiori sospetti, il dibattito pubblico è stato determinato prima dai fatti di Macerata, poi dall’inchiesta delle Iene e infine dai video di Fanpage. L’assassinio di Pamela Mastropietro, le cui modalità e i cui autori restano tuttora da accertare, ha permesso una furibonda campagna xenofoba, dato il colore della pelle dei sospettati. A sua volta, il tiro al bersaglio del nazi-leghista Luca Traini ha attivato l’allarme della piazza antifascista e antirazzista.
Fatto sta che la cronaca nera è diventata agenda politica, complici ad egual titolo Matteo Salvini e la gauche di una Laura Boldrini che ancora ieri chiedeva di sciogliere i gruppi dell’estrema destra. Un polverone enfatizzato, naturalmente, dai media. Ma poi ci hanno pensato le Iene a far dimenticare Macerata, portando agli onori delle prime pagine quella che ormai viene detta “Rimborsopoli”. In concreto, il programma di Italia 1 è riuscito a documentare come una decina di parlamentari del M5S non versassero le somme che avrebbero dovuto trasferire a un fondo per le piccole imprese. Una questione, tutto sommato, di scarso rilievo, dato il numero dei trasgressori e il carattere volontario della contribuzione, ma che invece ha avuto grande risonanza perché è stata utilizzata (soprattutto dal Pd) come la prova che anche i pentastellati non sono senza macchia. Che sono, come ha detto Renzi, “ex-onesti”. A sua volta, però, l’onda dell’indignazione antigrillina è stata scavalcata da un altro evento mediatico, l’inchiesta e i filmati di Fanpage. I quali, per le loro caratteristiche, stanno agitando un dibattito sugli “agenti provocatori” e sulla stessa legalità dell’attività giornalistica (ne hanno parlato efficacemente, su queste colonne, Massimo Adinolfi e Mauro Calise). Ma i problemi giuridici, deontologici e politici implicati dall’episodio sembrano interessare a pochi, mentre a monopolizzare il dibattito pre-elettorale è tutt’altro: è l’acclarata disponibilità alla corruzione di politici e pubblici amministratori che emergerebbe dall’inchiesta. Non fatti di corruzione, si badi bene, ma disponibilità alla corruzione. Cioè la conferma di un malaffare che sarebbe diffuso, generalizzato, forse universale. Musica per le orecchie di quei partiti e movimenti che della questione morale hanno fatto la propria ragion d’essere.
Certo è che un Paese il quale, con il voto del 4 marzo, deve decidere il proprio futuro su temi come l’occupazione, il fisco, la competitività, il ruolo in Europa, e via dicendo, viene invece trascinato, affascinato, quasi ipnotizzato da tre questioni che sembrano dirimenti soltanto perchè sono le uniche sulle quali politici e media insistono ossessivamente: gli stranieri, l’antifascismo e la corruzione. Come se l’Italia fosse un paese a forte tasso di immigrazione (è in realtà tra gli ultimi in Europa). Come se dovesse fronteggiare un rischio incombente di fascismo (semmai, la violenza di piazza viene dagli “antifascisti”). Come se la sua cifra principale fossero le pratiche corruttive (senza distinguere tra corruzione e percezione della corruzione). Del tutto disinteressata a ogni verifica concreta, la comunicazione sociale finisce così per navigare tra paranoia, ideologie e moralismo. È il trionfo dell’antipolitica. Di destra o di sinistra, non fa differenza.
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Il Mattino