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Si farà il possibile. Anzi, il necessario. Ma «non sarà una manovra elettorale». Aperitivo agrodolce a Palazzo Chigi. Giorgia Meloni chiama a conclave la sua maggioranza. I vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani, Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario, mente e adesso “voce” del governo. Uno ad uno, sfilano da Piazza Colonna anche tutti i capigruppo della coalizione. Una “riunione di spogliatoio”, così la definiscono. Per fare squadra. E prepararsi a un autunno caldissimo. La finanziaria da scrivere, per ora a matita, tra mille vincoli e ristrettezze. Le riforme da attuare. Con un’agenda già definita: «La delega fiscale, l’autonomia differenziata, la riforma della Giustizia, e la riforma Costituzionale che nelle prossime settimane arriverà a definizione», fa sapere il governo.
IL VERTICE
Meloni accoglie i suoi con prosecco e tartine. Ma come prevedibile nel clima di convivialità si fa spazio la cronaca politica. Cioè la manovra, il vero cruccio del governo mentre l’estate tramonta. Qualcuno attendeva al brindisi Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Economia sotto assedio dei partiti in cerca di un cenno benevolo per le coperture delle tante, troppe promesse elettorali. Ma il ministro non c’è. La sua presenza «non era prevista, è una riunione politica», precisano dal Mef smentendo polemiche. «Si preannuncia un anno complesso che la maggioranza è pronta ad affrontare con determinazione e serietà», fanno sapere a riunione in corso fonti di Chigi.
LA LINEA
I capigruppo presenti - Romeo e Molinari per la Lega, Barelli e Ronzulli per Forza Italia, i meloniani Foti e Malan e il leader di Noi Moderati Maurizio Lupi - concordano con la leader il metodo d’azione. In attesa di leggere la Nadef il 27 settembre - allora sì parlerà Giorgetti - Meloni invita a non disperdere in mille pulviscoli il magro tesoretto per la finanziaria di autunno. E tantomeno a cercare in questa manovra un asso elettorale per le europee: non è la manovra giusta per farlo. È un’austerity digerita a fatica dalla premier, ma necessaria. A Palazzo Chigi già si punta il dito sui responsabili.
I sospetti guardano a una Commissione Ue che, è la convinzione, finora si sta mostrando meno flessibile sui conti italiani di quanto previsto. O sperato. Ieri Salvini ha dato un nome e cognome a questi sospetti: Paolo Gentiloni. «Ho avuto l’impressione di avere un commissario europeo che giocava con la maglietta di un’altra nazionale. Più che dare suggerimenti, elevava lamenti e critiche», affonda il leghista. «Il commissario ha la fiducia del governo italiano per definizione», replica l’ex premier da Bruxelles. Poi c’è il Superbonus targato Cinque Stelle che «ha sfasciato i conti pubblici», tuonano dal governo. Eccolo, l’elmetto. A Palazzo Chigi Meloni convoca anche il ministro ai Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani per prepararsi alle battaglie d’autunno in aula. La strada è già in salita così. Un inciampo solo è di troppo.
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