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Il nuovo Covid in Italia si chiama VOC 202012/01, la variante inglese. I contagiati, di solito, hanno una carica virale molto più alta e questo facilita la sua trasmissione. «Verissimo. Però, per la nostra esperienza, a carica virale elevata non corrisponde per forza una malattia più grave - premette il professor Vittorio Sambri, direttore dell’Unità Operativa Microbiologia del Laboratorio Unico di Pievesestina dell’Ausl Romagna - Anzi, stiamo verificando vari casi di asintomatici la cui carica virale è molto forte». Conferma il dottor Alessio Lorusso, virologo dell’Istituto zooprofilattico di Abruzzo e Molise, che su questo tema ha realizzato una ricerca: «Statisticamente con la variante inglese la carica virale è più elevata e questo è un problema perché facilità il contagio».
C’è un altro nodo: secondo il professor Andrea Crisanti, che dirige il Dipartimento di Medicina molecolare dell’Università di Padova, «le varianti genetiche del gene N possono compromettere la capacità di usare i test antigenici». Insomma, potrebbero aggirare i test rapidi, anche se su questo i pareri degli esperti sono discordanti. In alcune regioni la diffusione della mutazione inglese è sopra al 90 per cento, se c’è un infetto quasi sicuramente ha quella mutazione di Sars-CoV-2. Su base nazionale siamo al 70 per cento. Ma la situazione è variabile: in Emilia-Romagna l’80 per cento dei sequenziamenti ha mostrato la variante inglese.
In Liguria, spiega il professor Giancarlo Icardi: «Dall’ultima analisi le varianti sui nuovi casi di positivi sono oltre il 75 per cento di cui oltre il 60 inglese e circa un 10 brasiliana».
SEGNALI
Altro segnale rilevato in molte regioni, come detto, è una accentuata carica virale, che in media può essere anche il doppio rispetto a quella della prima versione del virus. Segnalazioni arrivate dalle Usca nel Lazio, ma trovano conferma anche in altre regioni. Prendiamo l’Umbria, tra le prime a combattere le varianti. Antonella Mencacci è la responsabile del laboratorio di Microbiologia dell’ospedale di Perugia che, per fortuna, ha intercettato per tempo l’esplosione delle varianti poi arginate grazie alla zona rossa: «La nostra esperienza conferma che le cariche virali sono molto alte e l’infezione dura di più. E colpisce persone più giovani, questo ha comportato un abbassamento dell’età media di chi viene ricoverato». Analizza il professor Massimo Andreoni, primario di Infettivologia al Policlinico Tor Vergata di Roma: «Rileviamo non solo una maggiore trasmissibilità del virus, ma anche una maggiore severità. E vediamo persone più giovani che si ammalano. Più che parlare di una maggiore aggressività o virulenza, però, dovremmo parlare di una maggiore capacità replicativa. Questo è un problema molto serio. Nelle terapie intensive oggi ci sono cinquantenni e quarantenni». Eppure, nel dramma causato dalla diffusione della variante inglese, c’è un paradosso: è quasi un bene che stia vincendo la competizione con la mutazione brasiliana o sudafricana, perché sappiamo che l’effetto del vaccino sull’inglese non è in alcun modo compromesso.
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Il Mattino