Da Cuba alla Calabria il primo giorno in corsia: «Qui per dare una mano»

Polistena, task force di 51 camici bianchi

Da Cuba alla Calabria il primo giorno in corsia: «Qui per dare una mano»
Inviato a Polistena Non sono intirizziti dal freddo nonostante i 4 gradi qui nella piana di Gioia Tauro. Eppure sono lontani 9mila chilometri e più dalle temperature...

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Inviato a Polistena

Non sono intirizziti dal freddo nonostante i 4 gradi qui nella piana di Gioia Tauro. Eppure sono lontani 9mila chilometri e più dalle temperature caraibiche di Cuba questi medici chiamati a dare una mano ai 4 ospedali della zona altrimenti se la vedrebbero male. Con il rischio di chiudere a singhiozzo, come è già successo, interi reparti perché i camici bianchi qui non ne vogliono sapere di venire. Anche per un medico calabrese, anche della Locride, meglio, concorso per concorso, un posto altrove piuttosto che uno a un tiro di schioppo da casa.

«Non è la soluzione ma è una boccata d'ossigeno per i nostri ospedali», ammette Lucia Di Furia, una marchigiana tosta e risoluta nominata l'anno scorso commissario della disastrata Asl di Reggio Calabria. Una risposta anche a chi, in questi mesi, ha buttato benzina sul fuoco delle polemiche per l'arrivo di questi professionisti d'oltreoceano. Ed eccoli da ieri mattina al lavoro: 51 distribuiti tra Locri, Melito Porto Salvo, Gioia Tauro e Polistena. «Perché siamo qui? Abbiamo saputo che c'era bisogno di dare una mano. E l'altruismo scorre nelle nostre vene», dice toccandosi un braccio Dayli Ramos, 35enne radiologa e coordinatrice di questa squadra di 16 medici assunti per un anno a Polistena. Ecco, ricordate questo sostantivo in questa storia: al-tru-ì-smo.

E se qualcuno immaginava i calabresi che storcono il naso, scordatevelo. Alle 8 del mattino non c'è cerimonia o tagli del nastro tipici di certa politica ma una riunione operativa dei primari con i nuovi medici per mettersi subito al lavoro. Eppure un gruppo di cittadini di Polistena è qui solo per salutarli. «È giusto dirgli grazie. E siamo venuti apposta», dice una donna 40enne di questo comune di 9mila anime che guarda da lontano le altissime gru dei container del porto e, più in là, nitidissimo, il vulcano di Stromboli. Ma qui non c'è nulla di turistico: solo un nosocomio in affanno che cerca di rialzarsi. Come tutti gli ospedali della Locride o della Piana. Anzi della Calabria. Eppure le polemiche si sono sprecate. Anche contro il sindaco. Come se, da esponente di estrema sinistra, ci avesse messo lui lo zampino per questo ponte Calabria-Cuba. «E invece il primo a crederci con forza e a lavorarci è stato, paradossalmente, il governatore di centrodestra», spiega Michele Tripodi, 44enne sindaco di Polistena che è nipote di Mommo Tripodi, cresciuto bracciante agricolo ma diventato deputato per più legislature e considerato l'aristocrazia del Pci del Mezzogiorno.

«Stavamo assistendo all'agonia di quest'ospedale. Niente medici, niente assunzioni all'orizzonte e rischio di chiusura dietro l'angolo. È una misura emergenziale per garantire la sopravvivenza di questo ospedale che ha un bacino di 200mila utenti», continua Tripodi jr con malcelato orgoglio. Anche perché i veleni sono piovuti anche dal mondo della sinistra che declinava un'accusa pesantissima per uno come lui: «I medici cubani sono sfruttati perché pagati pochissimo, molto al di sotto degli italiani». E se così fosse sarebbe un paradosso odioso.

«Se ne sono dette di tutti i colori. Ma ci tengo a sottolineare una cosa: questi sono professionisti, solo da ringraziare, che vengono pagati come da contratto per i medici dirigenti a tempo determinato: circa 2700-3000 euro al mese. E, ci tengo a dire, gli stipendi vanno sul loro conto personale aperto in Italia», aggiunge la commissaria Di Furia per rispondere a chi accusava di sovvenzionare, con questa operazione, la dittatura cubana post Castrista che avrebbe trattenuto più della metà dei loro emolumenti. E puntualizza ancora: «Costano un quinto di un cosiddetto medico gettonista che fa un po' di ore strapagare e poi va via. Qui invece si stabilisce un anno di rapporto continuativo».



«Noi veniamo ad aiutare la sanità calabrese. Siamo un supporto ma ci metteremo tutto il cuore possibile e lavoreremo bene assieme», spiega Luis Enrique Pere Gulloa, ematologo e veterano di missioni sanitarie all'estero. È lui il capodelegazione di questi 51 medici arrivati in Calabria. Come vi stanno accogliendo: «Benissimo, un calore umano da parte di tutti». Sono qui da due settimane dove hanno fatto un corso intensivo di italiano declinato sul lessico medico. Ma non è un problema la lingua perché per i primi due mesi ognuno di loro sarà accompagnato da un collega. Tra di loro ci sono tre chirurghi per le emergenze, un pediatra, un fisiatra, 2 ortopedici e due esperti di terapia intensiva. Declinano brevemente le loro specialità mentre il direttore del presidio di Polistena immagina già dove andranno in questo ospedale di frontiera che solo da pochi anni, dopo una lunga battaglia, ha acquistato una tac. «Prima tastavamo e basta...», confessa un medico. Ora la speranza è che dopo questo anno se non finisca si assopisca almeno l'emergenza. In attesa dei concorsi. «Rimanere? Spesso - aggiunge Dayli - sono all'estero, in particolare in Venezuela, dove c'era bisogno di medici. Ma vediamo: il medico cubano è sempre pronto a dare una mano. Anche qui in Calabria. Ma per venire qui ho lasciato a Cuba mio figlio di 6 anni».
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Il Mattino