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“I portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell'industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l'essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo… hanno fatto scoppiare il conflitto”. Sono le prime parole di quello che è considerato uno dei testi più importanti dell’Ottocento, insieme al Manifesto del Partito Comunista di Carlo Marx e il saggio sulla libertà di John Stuart Mill. L’enciclica di Leone XIII, il primo Papa che si ritrovò a dover fare il capo di una Chiesa senza più uno Stato, volle proporre una tesi della rivoluzione industriale che fosse alternativa sia a quella socialista che a quella liberale. Oggi Leone XIV pone con la scelta del nome, al centro del suo pontificato la stessa ambizione intellettuale e sociale. Rispetto a quella di 150 anni fa, la rivoluzione attuale però presenta due radicali differenze. Differenze che complicano l’operazione come i leader di un’istituzione millenaria sanno bene.
L’enciclica che il Papa dedicò a fornire una teoria della Chiesa sulle “cose nuove” (rerum novarum) risale al 1891. Roma aveva circa 250 mila abitanti (meno di un sesto di quelli che vi risiedevano duemila anni prima) ed era – come il resto del mondo - senza elettricità e, neppure, i telefoni. Da quegli anni è passato solo un secolo e mezzo e, tuttavia, la società umana ha conosciuto, nel frattempo, un salto mai visto prima. Quella che Leone chiamò “l’ardente brama di novità” stava già producendo progressi impensabili e contraddizioni laceranti. La Chiesa con la sua dottrina sociale cercò un equilibrio tra chi credeva nella necessità di incoraggiare l’innovazione distruttiva dei capitani d’industria e chi rispondeva profetizzando e organizzando la lotta di classe. Il Papa vide nella formulazione di diritti dei lavoratori ad un’occupazione e ad un salario dignitoso e alla nascita di associazioni che li tutelassero, l’antidoto al conflitto: in questo la dottrina di una Chiesa che decise di “scendere in campo” si pone in sorprendente continuità con i primi sindacati fondati dal Partito socialista nato l’anno successivo all’enciclica.
Dopo 150 anni, in un mondo ancora più scintillante e lacerato, il nuovo Leone si trova di fronte ad un compito che è più intellettualmente difficile. Per due motivi.
Il primo è che quella in corso non è una rivoluzione industriale ma una mutazione biologica. Quella che cominciò alla metà del Settecento con i telai meccanici e fu, ulteriormente, accelerata dalle ferrovie che consentirono la specializzazione, cambiava il mondo fuori di noi. La produttività aumentò di diversi ordini di grandezza e la concentrazione dei mezzi di produzione sostituì un’umanità di piccoli artigiani, con moltitudini di operai che non possedevano che il proprio lavoro. La trasformazione digitale ci cambia, invece, dentro. Sta trasformando, da tempo, i nostri processi cognitivi. Quelli attraverso i quali trasformiamo l’informazione in conoscenza e, cioè, pensiamo. Toccando, persino, ciò che i cristiani chiamano “anima”. Con l’intelligenza artificiale le capacità che ci hanno definito potrebbero essere sostituite da macchine velocissime (e senza sogni). La rivoluzione industriale stava creando un’umanità povera; quella dell’intelligenza artificiale rischia di renderci, invece, inutili.
La seconda differenza i due contesti è che mentre Leone XIII andava a scrivere una sua teoria in competizione con quella di Carlo Marx e quella di John Stuart Mill, per Leone XIV la sfida è quella di andare a occupare un vuoto. Oggi non c’è nessuno - neppure nelle grandi società di consulenza e università nelle quali la mia generazione è cresciuta - che davvero abbia ancora una teoria complessiva di ciò che sta succedendo. E ciò forse proprio perché – come avvertirebbero gli scienziati naturali che formularono il principio di indeterminazione – sono cambiati non tanto i fatti osservati, ma la posizione dell’osservatore. Abbiamo bisogno di nuovi strumenti per conoscere la conoscenza, proprio mentre il mondo cambia sotto i nostri occhi.
Un mondo ridotto a inseguire una cronaca squallida, a vivisezionare sintomi di malesseri molto più profondi, non ha più la forza di studiare e, dunque, di risolvere problemi. E tra i sintomi ci sono anche i populismi – incluso quello americano – rispetto ai quali ci riduciamo a dividerci per tribù polarizzate (alle quali qualcuno vorrebbe l’adesione dello stesso Papa). La Chiesa può, invece, farcela.
Il Mattino