La direzione del Pd si apre all’insegna dell’ennesimo dramma. Sembra in gioco la stessa unità del partito. E l’opinione pubblica non capisce. In fondo,...
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Nel 2008 il Pd nacque su un terreno fragilissimo, perché metteva assieme la sinistra di origine comunista e il popolarismo di marca democristiana. Due culture politiche che, già allora, apparivano obsolete. Egualmente sconfitte dalla storia, per dirla con enfasi.
Gli ex comunisti del Pd erano gli eredi di quella criticità mai risolta del sistema Italia che nel 1979 Alberto Ronchey aveva definito Fattore K. Cambiati frettolosamente i panni dopo il crollo del Muro, costituivano pur sempre un residuato. Finivano per portare nel nuovo partito pratiche politiche, ideologie e perfino attitudini caratteriali singolarmente d’antan. Ma anche gli ex popolari confluiti tra i democrat erano inadeguati. Nella Prima Repubblica avevano cercato di spingere il grande centro verso alleanze di sinistra. Ciò che fece Moro con i socialisti e poi con il Pci. E però, se la strategia morotea si era in parte realizzata, il tentativo di riproporla nel Terzo Millennio da parte di Matteo Renzi si è rivelato debole. Scomparsa la Dc, infatti, il centro era già stato assorbito da un centrodestra composito, al cui interno ha potuto svolgere peraltro un ruolo di primo piano, riuscendo a condizionare la linea politica dell’intera coalizione, da Forza Italia al movimento leghista e ai postfascisti. Quel che del vecchio corpo democristiano è confluito nel Pd è rimasto invece poca cosa. Povero di capacità egemoniche. Elettoralmente sterile. Senza la capacità di attrarre l’opinione moderata.
Renzi ha dovuto far conto insomma su un personale politico di sinistra che fin dalle origini del Pd appariva storicamente superato, evidentemente a disagio in una formazione che stava modificando la natura socialista del partito. E su una componente centrista formata per lo più da reti notabilari ormai periferiche e sfibrate, le quali si sono dimostrate assai poco innovative. Quando si dice che l’ex premier ha compiuto in questi anni numerosi errori politici, si dice il vero. Ma resta il fatto che la sua scommessa di varare un programma liberal-democratico non ha mai avuto alle spalle un partito adeguato. Non era liberale e spesso non era democratica l’anima ex comunista del Pd. Non era pienamente liberale neppure la sua componente cattolica.
Il che, tornando all’odierno dramma, fa capire come probabilmente non abbiano torto gli antirenziani del Pd che vedrebbero con favore un qualche accordo di governo con il M5S, perchè certamente esistono numerose affinità tra le proprie culture politiche e la cultura politica, per quanto cangiante, dei Pentastellati. E non hanno torto i renziani a ribadire che il gap tra loro e Di Maio è insuperabile. Il rebus ha radici vecchie, addirittura storiche. Appare quasi insolubile. A meno di prendere la strada dolorosa della scissione. Ma anche in questo caso resterebbe da capire quanto sia consistente l’area tuttora infiltrata da ideologie cattocomuniste e quanto sia consistente, nel gruppo dirigente e tra gli elettori, l’area liberale. Un dilemma che, con ogni probabilità, non si risolverebbe neppure se oggi al Nazareno decidessero di contarsi.
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Il Mattino