L’Italia ha bisogno oggi più che mai, e prima che sia troppo tardi, di una riforma della giustizia. Senza di essa il rischio è di una gigantesca paralisi...
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Una riforma, quella della giustizia, che ritarda, né è sorprendente che ciò avvenga. Il ritardo, la difficoltà, che si è vista anche in governi attivi e dinamici come quello ora andato a casa, sta proprio nei rapporti interni ai diversi corti circuiti appena indicati, e nel fatto, per dirla con la massima chiarezza, che si vanno incrinando i confini tra i diversi poteri e ordini dello Stato, e che non è facile pensare come rimettere un po’ d’ordine nell’insieme dei problemi che emergono e confusamente confliggono.
Si è incerti se incominciare dall’alto o dal basso, dal populismo giustizialista o dai sottili temi che toccano la funzione della Corte più alta, e forse, sì, è bene incominciare dal basso. E il «basso» è il populismo giustizialista. Che intendo per esso? Quello che invade il senso comune di una parte rilevante della società e che poi spesso ricade, come sta avvenendo, sugli stessi promotori «morali» del fenomeno: l’avviso di garanzia come condanna, tutti ladri a cominciare, ben s’intende, dall’avvisato, spesso con la collaborazione dei titoli di non pochi quotidiani che, seduti sulla tendenza diventata dominante, ne formano e ne facilitano il dilagare. Viva Sala, sindaco di Milano autosospesosi, mi verrebbe da dire.
Che c’entra Sala? C’entra e come, giacché io leggo il suo gesto proprio come un atto politico di notevole e non comune forza, non un atto di debolezza o di arroganza, ma, sì, di insofferenza aristocratica, di invito, intanto, a far presto, e di liberazione dal peso di qualcosa che, da atto di garanzia per l’accusato, è diventato atto d’accusa e che, solo per questo, dovrebbe essere utilizzato con la dovuta parsimonia, con la necessaria prudenza.
Ma non è così, e non lo è, a me pare, non per colpa dei singoli magistrati, che pure talvolta si sentono investiti di poteri salvifici e spesso si ergono impunemente a giudici della storia, ma per quel principio che pesa come un macigno sull’ordinamento giudiziario italiano, e che è l’obbligatorietà dell’azione penale. Che non è affatto massima garanzia del perseguimento dei reati, quanto piuttosto premessa per dare inizio all’azione giudiziaria al primo stormir di foglie anche lieve, anche privo di effettiva consistenza e non dir rado sfiorante il ridicolo. Non sto parlando, ben s’intende, del caso di Milano di cui nulla sappiamo, anche se il gesto di Sala vuol esser, mi pare, anche una risposta nel merito della questione: fate presto e fatemi tornare a lavorare! Ora nessuno ha avuto finora il coraggio di mettere in discussione quel principio che pure non esiste nella quasi totalità degli ordinamenti europei, come sottolineato ieri su questo giornale da Giovanni Verde. Giacché subito insorgerebbe il populismo giustizialista e i suoi molti rappresentanti, a dire, ecco volete salvare i corrotti, e giù ingiurie varie all’élite politica che ci avesse provato, sommersa, magari, e annientata in apposito referendum che si svolgerebbe al grido: abbasso i complici dei corrotti! E mi domando ancora: quando si avrà il coraggio di proclamare la separazione delle carriere? Per funzioni non solo diverse ma tra loro quasi opposte come accusa e giudizio? Quando giungerà la vittoria della politica e del pensiero istituzionale sugli spiriti resistenti delle corporazioni?
Già, la politica, ecco il circolo vizioso, giacché più questo clima descritto cresce più il livello della politica si abbassa. Più il lieve stormir di una foglia fa irrompere l’accusa sulla scena, più la politica diventa qualcosa in cui si preferisce non immischiarsi, sempre più abbandonata dai migliori, sempre meno politica per vocazione, se la confusione e la prevaricazione di un potere sull’altro non lascia intravedere uno spazio di comprensione e collaborazione, ma uno scenario di lotta senza quartiere dove ognuno guarda l’altro come potenziale nemico. Sto disegnando, mi rendo conto, un crinale estremo, sempre memore di quella regola che prevaleva nelle antiche scuole di logica, la regola che invitava a radicalizzare il ragionamento per far venir fuori il problema: se non si era in grado di farlo, si poteva essere esclusi. Ma su quel crinale, comunque, spesso ci si trova realmente, e la questione «giustizia» sta diventando un’altra emergenza dell’Italia, non una questione cui pensare nei momenti in cui non si ha qualcosa di più urgente da fare, come ormai d’abitudine.
Ma voglio giungere ai piani più alti, salendo velocemente tutta la scala... È ormai del tutto evidente che si vanno disegnando dappertutto linee di conflitto potenziale tra la sovranità del parlamento e la sovranità della Corte costituzionale. Non è una affermazione irresponsabile né voglio ora entrare in più specifici esempi o casi sui quali argomentare il problema. Mi sento di sollevarlo come una questione che non può non stare nell’orizzonte di una riflessione sugli sviluppi e sulla crisi della democrazia politica, quando tornerà il tempo per riflettere, e dunque di sicuro non ora che è tempo di gran confusione. Tengo solo a dire che, nella dottrina costituzionale, soprattutto tedesca e francese, di questo tema si dibatte, avvertendosi il rischio che la giurisdizione costituzionale diventi, nella sua autoreferenzialità assoluta, «giustizia politica», partecipazione alla condivisione della conduzione suprema dello Stato nella forma, però, di decisioni giudiziarie. Un problema alto, nobile, serio, che nomino per memoria nella veloce chiusura di un articolo.
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Il Mattino