Finora, c'erano due scenari sul tavolo del futuro del governo. Il primo prevede che, a dispetto del teatrino degli insulti reciproci, i gialloverdi rimarranno insieme. Tropo...
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Non è detto che non si riesca a trovare una toppa diplomatica, e il conflitto venga rinviato. Ma in questi giorni è cambiato bruscamente lo storytelling che ha dominato per mesi il dibattito italiano, almeno a giudicare dai consensi crescenti per il ministro dell'Interno.
Il problema migranti riguardava l'approdo di qualche Ong, col suo fardello di umanità disperata più o meno legittimata a sbarcare. Bastava chiudere i porti, litigare un po' con l'Europa, e ottenere che diminuisse ulteriormente il già sparuto traffico degli scafisti. Con la superficialità così tipica della memoria corta della Rete, nessuno era, infatti, disposto a ricordare che il blocco degli sbarchi era possibile solo perché, negli ultimi due anni, erano state bloccate le partenze. Grazie all'estenuante lavorio portato avanti in tandem da Farnesina e Viminale, erano diventate pochissime le imbarcazioni che prendevano il largo. Ed era diventato, quindi, facilissimo decidere di stopparle all'arrivo.
Adesso, si ritorna al punto di partenza. Cioè, alle coste della Libia, messe di nuovo a ferro e fuoco. È inutile provare adesso ad azzardare previsioni, anche se siamo consapevoli che potrebbero essere catastrofiche. Quello che comunque appare chiaro, è l'esigenza di un cambiamento immediato nella politica del governo. Che deve smetterla di occuparsi soltanto di conquistare qualche punto in più alle prossime elezioni europee, illudendosi che si tratti di una sfida tutta interna alle mura domestiche. E deve precipitarsi a intervenire sullo scacchiere internazionale dove negli ultimi mesi ha accumulato solo brutte figure. Cercando di rinsaldare le alleanze storiche del nostro paese, che si sono quasi tutte sfilacciate. E riprendendo l'iniziativa in quello che, nel Mediterraneo, è stato a lungo il nostro ruolo storico: tessere, invece di scassare.
Per una svolta di questa portata, è inutile fare affidamento sui dioscuri occupatissimi a darsele di santa ragione sulla tolda del paese che affonda. Due figure istituzionali hanno l'obbligo di farsi avanti. Il primo è il presidente del Consiglio. Espertissimo nel dirimere complesse controversie di diritto privato che si tratti di aziende o di partiti Conte si trova ora alle prese con il diritto internazionale. Dove vige più che in ogni altra circostanza la clausola con cui Carl Schmitt definì il potere politico: sovrano è chi decide nello stato d'eccezione. Se fino ad oggi il primo ministro è stato abile nel giocare di rimessa sul ring dove i due vicepremier se le davano di santa ragione, ora può solo muoversi all'attacco. Se perde anche questa occasione per esercitare senza se e senza ma le prerogative che gli competono, non fa solo un autogol personale. Lo fa fare a tutta l'Italia. E costringerebbe Mattarella a surrogare la sua latitanza.
Nella ormai celebre definizione di Giuliano Amato, le leve del Capo dello Stato sono come una fisarmonica. Si allargano o si restringono a seconda del peso e delle capacità degli altri attori istituzionali. Finora il presidente è rimasto pur se con preoccupazioni crescenti alla finestra. Ma se questo balletto di baruffe verbali ad uso interno dovesse continuare anche di fronte al rischio di un esodo biblico dalle coste nordafricane, Mattarella ha il diritto-dovere di intervenire in prima persona. Come hanno fatto, in occasioni simili, Ciampi e Napolitano. Con buona pace della politica virtuale, la più alta carica istituzionale della nostra repubblica rimane a norma di costituzione - quella presidenziale. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino