OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
oppure
1€ al mese per 3 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Buchi temporali, dichiarazioni contraddittorie, atteggiamenti che vengono descritti come sospetti, ma anche un’agendina dimenticata negli uffici dove è stata uccisa Simonetta Cesaroni nell’agosto del 1990, finita tra i reperti dell’indagine e poi scomparsa. E ancora: tracce di sangue sulla porta e sul telefono. E le chiavi dell’appartamento della sede degli Ostelli della gioventù, dove la ragazza lavorava ed è stata uccisa, che sarebbero dovute essere all’interno dell’appartamento e invece erano in possesso della moglie del portiere dello stabile che, a dire degli investigatori, aveva cercato di non consegnarle ai poliziotti arrivati a via Poma dopo la scoperta del cadavere. Sono i nuovi dubbi su uno dei cold case che da più di 30 anni tiene la Capitale con il fiato sospeso e sono contenuti in un’informativa agli atti dell’ultima inchiesta sul caso, stilata dai carabinieri della sezione di pg di piazzale Clodio e consegnata alla pm Gianfederica Dito, che ha però deciso di chiedere l’archiviazione del fascicolo. I militari indicano una possibile ricostruzione inedita, che vede come autore dell’omicidio Mario Vanacore, figlio del portiere del palazzo, Pietrino, sospettato per primo e poi scagionato dagli accertamenti, ma indagato più volte - senza esito - come possibile favoreggiatore del killer di Simonetta. Una ricostruzione che non viene condivisa dalla pm, che parla di supposizioni e suggestioni non sostenute da prove.
I TASSELLI
Ma ecco quali sono i tasselli messi insieme dai carabinieri. L’omicidio di Simonetta è avvenuto il 7 agosto 1990. Dagli atti, si legge nell’informativa, «emerge un evidente quadro indiziario che interessa il contesto famigliare di uno dei portieri dell’epoca del condominio di via Carlo Poma 2/4, Pietrino Vanacore», morto suicida nel 2010. A insospettire sono «una serie di condotte» dell’uomo e della moglie Giuseppa De Luca, «che non si spiegano altrimenti se non con il coinvolgimento nell’omicidio». Prima di tutto quando la sorella di Simonetta arriva a via Poma dopo le 23 preoccupata perché la giovane non è tornata a casa, accompagnata dal fidanzato e dal datore di lavoro della ragazza, è solo «dopo una certa esitazione» che la De Luca accetta di accompagnarli negli uffici.
«ATTEGGIAMENTO DEPISTANTE»
L’informativa prosegue sottolineando che «l’atteggiamento depistante è continuato anche nei giorni e negli anni successivi». Per i carabinieri, «i comportamenti anomali, inconsueti e innaturali assunti dai coniugi» portano a ipotizzare che «possano aver agito per ostacolare le indagini, esponendosi in prima persona», forse «per proteggere qualcuno al quale erano particolarmente legati».
Poi c’è la questione dell’agendina rossa con la scritta «Lavazza», trovata nell’appartamento e inizialmente scambiata per uno degli effetti personali di Simonetta. Apparteneva alla famiglia Vanacore e non è mai stato chiarito perché fosse all’interno degli uffici. «Non si sa dove sia finita e che destino abbia avuto», sottolineano i carabinieri. Un altro elemento mai chiarito sono le tracce di sangue repertate sulla porta dell’ufficio dove è stato trovato il cadavere e quelle trovate sulla tastiera del telefono in un’altra stanza. Secondo i militari potrebbero essere state lasciate da Mario Vanacore, che avrebbe usato il telefono per chiamare i familiari e chiedere aiuto. Una ricostruzione che la Procura non ha condiviso. All’epoca della prima inchiesta quelle tracce erano state analizzate e comparate con i campioni ematici prelevati dai primi sei indagati: Pietrino e Mario Vanacore, la De Luca e altre tre persone. Le loro posizioni erano state tutte archiviate. «L’unica volta che ho visto Simonetta Cesaroni era morta», ha dichiarato Mario Vanacore in un’intervista alla Stampa, sottolineando che la sua posizione «era stata esclusa anni fa. È assurdo che vogliano chiudere la storia in questo modo, dicendo forse è stato lui, ma non abbiamo le prove».
Il Mattino