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ll voto di fiducia al Senato ha chiuso solo temporaneamente una crisi che vede tanti sconfitti e nessun chiaro vincitore. Matteo Renzi non è riuscito a far cadere il premier. Le opposizioni continuano a non incidere in Parlamento. Il Presidente del Consiglio, sull’altro fronte, è riuscito a mettere assieme una maggioranza relativa, sufficiente a superare il voto di fiducia, non a governare stabilmente il Paese. I timori del Colle certificano che la crisi non è passata e il momento politico rimane caratterizzato da una profonda incertezza.
Una parte importante del Paese, il 42% secondo un sondaggio Ipsos dei giorni scorsi, non ha capito le ragioni di questa crisi. In una nazione ormai strutturalmente fondata sulla sfiducia verso la classe politica, ciò rischia di accentuare la diffidenza e la distanza dei cittadini verso le istituzioni, nonostante il clima d’opinione da unità nazionale instauratosi con il dilagare della pandemia di Covid. La mossa di Renzi non ha portato alla caduta di Conte, ma il governo ne esce debilitato. Secondo un sondaggio di Emg solo il 25% pensa che il governo si sia rafforzato con il voto di fiducia, mentre il 58% lo vede più debole: un indebolimento, quindi, sia nei numeri parlamentari, sia nell’opinione pubblica. La stessa ricerca indaga anche un elemento apparentemente fantapolitico, ma molto attuale: l’ingresso del Presidente del Consiglio nella contesa elettorale. Il “partito di Conte” di cui tanto si parla in queste settimane: quanto prenderebbe? E a chi toglierebbe voti? Per Emg si attesterebbe al 9,1%, mentre per altri istituti può raggiungere risultati più elevati: Swg lo vede addirittura tra il 15 e il 17% dei voti, con una provenienza del consenso ben distribuita tra indecisi (5,3%), elettori del MoVimento 5 Stelle (5%), del Partito Democratico (4%), di altri partiti (1%) e del centrodestra (0,7%).
Tuttavia, la possibile alleanza tra Pd e 5Stelle, da sola, non è ad oggi competitiva con la coalizione di centrodestra, e un eventuale ritorno alle urne richiederebbe schemi nuovi: Conte avrebbe difficoltà a trasformare un consenso istituzionale in voti, ma una sua lista potrebbe scardinare gli attuali equilibri pescando nel bacino dell’astensione, intercettando poi consensi in uscita tra i moderati del centrodestra. Dunque, una lista nuova che indebolirebbe Pd e MoVimento 5Stelle, per rafforzare però la coalizione. Ad ogni modo, la priorità di Conte oggi non può che essere il governo. Ogni sua ambizione futura dipende dal suo consenso personale, fortemente connesso al suo operato governativo. Un governo traballante, ostaggio di pochi senatori, difficilmente può essere un buon biglietto da visita per una “lista di Conte”: se i consensi del premier scendessero, la stessa sorte toccherebbe poi alle sue ambizioni e chances elettorali. “Tirare a campare” può essere meglio di “tirare le cuoia”, ma rimane un’attività che poco si addice a un leader moderno che vuole creare consenso attorno alla sua figura in tempi di politica veloce e polarizzata.
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