Stato-mafia, Mancino: «Io vittima, volevano mortificare le istituzioni»

Stato-mafia, Mancino: «Io vittima, volevano mortificare le istituzioni»
Alla fine, Nicola Mancino cede alla commozione. La voce, che un attimo prima era stata quella di chi ha vinto la sua partita, forse la più importante della sua vita,...

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Alla fine, Nicola Mancino cede alla commozione. La voce, che un attimo prima era stata quella di chi ha vinto la sua partita, forse la più importante della sua vita, s'incrina e si spezza quando prende a raccontare le tante notti insonni di questi cinque anni. «Ho sofferto, certo che ho sofferto e duramente. È stato un vero incubo», riesce a spiegare.

Pochi minuti dopo le 16 il cellulare e il telefono della sua abitazione a Roma sono impazziti. La figlia Chiara si è assunta il compito di smistare le comunicazioni, di filtrare le chiamate e di far capire subito che «siamo usciti dal girone infernale».

Chi ha vissuto accanto a lui lo ha visto decisamente provato. «Tutto ciò non cancella le sofferenze maturate da Mancino con gli esiti psicologici che un processo del genere può avere», ammette Massimo Krogh, uno dei suoi legali.

L'ex ministro dell'Interno tra il 1992 e il 1994, oggi 86enne, già al vertice del Senato e alla vicepresidenza del Csm, dopo aver deposto nell'ultima udienza nell'aula bunker del carcere di Pagliarello a Palermo ha preferito attendere la sentenza per il processo alla trattativa Stato-mafia a casa: «Lì avevo detto quanto dovevo».
La Procura palermitana aveva chiesto la sua condanna a 6 anni di carcere per falsa testimonianza. È stato assolto con la formula del fatto che non sussiste e ora cita il brano metaforico di Bertolt Brecht del mugnaio che lotta contro l'imperatore e alla fine riesce a trovare un giudice a Berlino che ripari a quello che lui ritiene un grave torto subìto.

Mancino, si sente liberato?
«È finita la mia sofferenza, anche se sono sempre stato convinto che a Palermo ci fosse un giudice. La sentenza è la conferma che sono stato vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo che lo ha rappresentato ieri e oggi».

Lei ha sempre detto di essere vittima di un teorema.
«Certo, di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo. Sono stato volutamente additato ad emblema di una trattativa, benché il mio capo di imputazione, che è caduto, fosse di falsa testimonianza. Sono stato relegato per anni in un angolo ad ascoltare quello che si diceva sul mio conto, specie da parte dell'ufficio del Pubblico ministero di Palermo. Oggi posso dire di non aver atteso invano. Ma che sofferenza». 

Quale è stato il momento pià difficile?
«Le notti insonni, le tante notti insonni di questi anni. Io accusato di aver favorito la mafia e danneggiato lo Stato dopo aver sempre combattuto la malavita organizzare ed essere stato sempre contrario l'attenuazione del carcere duro ai boss. Quando sono stato ministro ho sciolto decine di amministrazioni comunali per infiltrazione mafiosa e del resto Totò Riina nelle intercettazioni in carcere diceva di me: Ma che vogliono sperimentare... Mancino, un nemico numero uno, nemico della mafia. Ho voluto ribadirlo nella mia deposizione a Palermo».

In aula si è voluto difendere apertamente.
«Non avevo niente da nascondere. Il primo luglio 1992, appena eletto ministro dell'Interno, il capo della Polizia mi disse che Paolo Borsellino voleva salutarmi. Ci fu solo una stretta di mano, soltanto quella, nessun dialogo, lo ha detto anche il giudice Aliquò, che era presente. Tutto il resto è una grande congettura».

 

A Palermo si è pentito delle telefonate a Loris D'Ambrosio, l'allora consigliere giuridico del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
«Ma non volevo assolutamente interferire sull'attività dei magistrati di Palermo. Chiedevo il coordinamento, non l'avocazione. A posteriori, e questo ho detto in aula a Palermo, dico che era preferibile non telefonare».
L'accusa di falsa testimonianza era stata motivata dalle affermazioni di Claudio Martelli che aveva dichiarato di aver chiesto conto e ragione a lei dei colloqui riservati fra gli ufficiali del Ros e l'ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, nell'estate del 1992.
«Ho sempre negato quell'incontro. Non ho mai parlato del Ros e di Ciancimino con Claudio Martelli. Non ho mai commesso il reato di falsa testimonianza, che ha costituito la causa di una sofferenza indicibile: i giudici adesso lo hanno accertato».
Che cosa intende fare ora?

«Mi auguro che la lotta alla malavita organizzata, alla camorra, alla mafia e alla 'ndrangheta continui con sempre maggiore intensità. Lo dico da uomo di Stato e farò di tutto perché ciò avvenga. Ho anche il desiderio di raccontare a chiunque l'esperienza che ho dovuto attraversare. Non più difendermi, ma spiegare».
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Il Mattino