Djokhar e Tamerlan, Salah e Brahim, Said e Cherif, Karim e Foued, Mohammed e Kader, prima c'erano stati Hamza e Ahmed, sul volo United 175, Waleed e Wail, sull'American...
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Lo psichiatra e ex agente della Cia Marc Sageman ci scrisse un libro già nel 2003. C'era stato il commando dell'11 settembre 2001: sui diciannove terroristi kamikaze sugli aerei, tre coppie di fratelli. E poi l'attentato a Bali del 2002: a organizzare il massacro di 202 persone erano stati tre fratelli, Ali Imron, Amrozi Nurhasyim e Ali Ghufron. «È un fenomeno naturale - ha spiegato ieri Sageman all'agenzia France Presse -. L'identità sociale si sviluppa in principio parlando con chi ci sta vicino, e chi ci sta più vicino sono innanzitutto i fratelli e gli amici d'infanzia». La circostanza è confermata anche dal censimento degli aspiranti jihadisti che partono ad addestrarsi in Siria: un quarto sono fratelli. È qui, nel cerchio familiare, che la radicalizzazione diventa progetto: «S'inventano un'identità di difensori di un islam aggredito, di donne e bambini uccisi nei bombardamenti aerei. Si radicalizzano, si confortano gli uni con gli altri».
Proibito naturalmente generalizzare, non esiste il jihadista modello: sociologi, politici e esperti vari ci hanno rinunciato, troppe volte sono stati smentiti dai fatti, dal kamikaze di buona famiglia, figlio di genitori amorevoli, bravo a scuola, pieno di amici, non psicopatico, magari pure figlio unico. Ma c'è un dato statistico. I fratelli Tsanaev dell'attentato alla maratona di Boston, i Merah di Tolosa, Mohamed ha ammazzato 7 persone, Kader è in carcere per complicità, i Kouachi a Charlie Hebdo, gli Abdeslam e il 13 novembre: Brahim si è fatto esplodere sul boulevard Voltaire, Salah si è tirato indietro all'ultimo, dice. Gli Aggad: Karim Mohamed è detenuto a Fleury-Mérogis da un anno, da quando è tornato dalla Siria, suo fratello Foued si è fatto esplodere il 13 novembre dopo avere fatto strage al Bataclan. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino