Sulla prua c'era scritto Lynx. E Radhost, Jolly Rosso, Rigel. Oppure Cunsky. Sono i nomi delle «navi a perdere», le «navi dei veleni», che dagli scali...
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Mariangela Gritta Grainer, che sul caso Alpi-Hrovatin lavora da oltre vent'anni (ci ha scritto anche tre libri), da parlamentare del Pds ha fatto parte della commissione d'inchiesta sulla cooperazione tra Italia e Paesi in via di sviluppo. E non ha mai avuto dubbi: quella di Ilaria e Miran fu un'esecuzione (come titolava già il primo dei suoi libri). «Nel traffico dei rifiuti tossici - ricorda - erano coinvolti anche pescherecci donati dalla cooperazione alla Somalia, ai tempi di Siad Barre. Partivano per portare pesce in Italia, poi tornavano a Mogadiscio seguendo lunghe rotte che andavano dall'Irlanda all'Iran, con tappe a Beirut. E scaricavano armi e fusti velenosi. È probabile che una parte di scorie tossiche siano interrate lungo la strada tra Garoe e Bosaso. Ma naturalmente nessuno è mai andato a cercarle. Si sa invece che quando ci fu lo tsunami, che toccò anche le coste del Corno d'Africa, sulle spiagge furono trascinati bidoni di rifiuti velenosi e radioattivi. Quelli che erano stati scaricati in mare».
Ilaria Alpi aveva dunque messo il naso in un colossale giro d'affari. L'ipotesi del depistaggio, avanzata nel corso del tempo da più di un magistrato, si rafforza con la sentenza di ieri che assolve Hashi Omar Hassan. Il suo accusatore - Ali Rage Hamed, detto Jelle - disse di averlo incastrato perché gli era stato chiesto. Da chi? Disse pure di essere stato pagato. Da chi? «In ogni caso va ricordato che Jelle non ha mai messo piede in un aula di tribunale italiano e che la sua ritrattazione, poi raccolta all'estero dal magistrato, è stata resa nota solo grazie all'iniziativa della trasmissione Chi l'ha visto - sottolinea Mariangela Gritta Grainer - La verità andrebbe ora cercata nell'enorme documentazione messa insieme dalla Commissione d'inchiesta parlamentare, nelle carte della Procura di Roma, dove sono stati convogliati documenti e testimonianze sul caso Alpi-Hrovatin, inviati da una quindicina di altre Procure». E poi ci sono i circa 600 dossier (una parte prodotti dai servizi segreti italiani), desecretati per iniziativa di Laura Boldrini, che fanno riferimento a molti misteri internazionali.
I buchi neri che hanno costellato la vicenda per 22 anni sono tantissimi. Dall'autopsia non effettuata (il corpo di Ilaria Alpi fu riesumato solo nel 96), alle tre perizie basilistiche per accertare che la giornalista fu ammazzata con un colpo alla testa sparato a bruciapelo. La stessa commissione parlamentare d'inchiesta, presieduta da Carlo Taormina, si concluse con una controversa relazione di maggioranza, che optava per la «casualità» dell'agguato e che venne contestata da altre due relazioni della minoranza. La costituzione di una seconda commissione d'inchiesta naufragò malamente nel 2008. Ma quelli erano gli anni, si sarebbe poi scoperto, dell'Italia del bunga bunga e delle olgettine, che aveva altro a cui pensare che rispolverare il caso Alpi-Hrovatin. Anche le inchieste giudiziarie sono andate avanti tra avocazioni e richieste di archiviazione. Hashi Omar Hassan, venuto in Italia nel 97 per testimoniare sulle violenze dei militari italiani sulla popolazione somala, finisce in cella con l'accusa di aver fatto parte del commando. Viene assolto. Poi condannato all'ergastolo. Poi a 26 anni. Da ieri è libero. Il caso non è chiuso. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino