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Le donne polacche alle stazioni delle città di confine con l’Ucraina lasciano dei passeggini vuoti per le mamme ucraine in fuga coi loro figli piccoli. È il segno della solidarietà tra donne, della cura per le creature umane e dell’amore per la vita che salva la vita, anche quando la guerra semina morte e devastazione. Un aspetto che le donne di quelle martoriate regioni dell’Est Europa hanno inciso sulla loro pelle e nella loro storia famigliare. Per esempio Nadya Bezruchenko, la madre ottantenne di Tetyana Ceppici, che da giorni cercava di sopravvivere al bombardamento russo su Mariupol, rintanata nel seminterrato di casa sua, con una scorta di pane e acqua, ma senza gas e senza luce, adesso non risponde più al telefono.
Anche per lei dev’essere scattata la solidarietà tra donne, come quella che ottantant’anni fa, appena la Wehrmacht nel giugno 1941 invase l’Urss facendo scoppiare quella che i sovietici chiamavano la guerra patriottica, permise al marito, Sergej, un bambino rachitico di due anni, con la pancia gonfia dalla fame, di salvarsi da morte sicura grazie a una contadina di Jozovka, la città ribattezzata Stalino in epoca stalinista e oggi nota al mondo come Donetsk, capitale della repubblica separatista nel Donbas. Fu lei infatti, Maria, quell’energica ragazza ucraina che lavorava come trattorista e meccanica specializzata, e all’epoca era presidente del consiglio del villaggio Novoucrainka, a decidere con la madre contadina Stepanida di tenersi quel bambino denutrito, anziché consegnarlo all’orfanotrofio o portalo in ospedale, crescendolo poi come suo figlio. Oggi le vicine di casa della vedova di quell’ex bambino denutrito, diventato un ingegnere meccanico in una fabbrica di Mariupol, vivono a Kiev e telefonano all’amica che vive a Milano per dirle che le case del loro quartiere sono ancora in piedi, anche se hanno quasi tutte le finestre sventrate per i vetri rotti.
Una di queste vicine di casa, Olha Kupriyan sabato scorso, tre giorni dopo l’inizio dell’invasione russa, è riuscita a scappare da Kiev con la figlia di sette anni.
La solidarietà tra donne aiuta a vivere, ma il ricordo della paura è indelebile. «Avevamo paura di partire. La paura ti paralizza. Non riesci a muoverti. Passavamo le ore chiuse in casa a guardare il telegiornale, scendendo nei rifugi quando suonava l’allarme». Olha racconta che non avendo una macchina, per raggiungere la stazione dovevano prendere un taxi che però non arrivava mai «così mi sono messa a urlare in un corridoio tra due mura maestri. Non volevo partire, lasciare la mia casa, mio marito. Abbiamo deciso tutto in un quarto d’ora, per arrivare in tempo alla stazione. Quel sabato il coprifuoco è iniziato alle 17 e sarebbe durato tutto il fine settimana».
Olha racconta di aver chiesto un passaggio via facebook e di esser riuscita ad arrivare alla stazione grazie a un’altra amica che è andata a prenderla in macchina. Lì è salita con la figlia su un treno, stipata in uno scompartimento con un’altra donna in fuga da Donetsk con un bambino di cinque mesi e finalmente è arrivata a Leopoli. Dice che la figlia Yasya ora sta bene, ha dimenticato la paura delle bombe, e sembra vivere un’avventura, anche se le manca il padre e il suo criceto. «Da rifugiati, avevamo bisogno di vestiti pesanti, e grazie al cielo sempre con un post su facebook abbiamo ottenuto quello che ci serviva. Adesso, però, dobbiamo mantenere su il morale per i nostri figli. Non posso piangere, lasciarmi andare, devo pensare a mia figlia, alla quale cerco di mostrare il lato eroico della realtà, parlando dei soldati ucraini che ci difendono e preservandole l’infanzia, anche se a volte avrei bisogno di staccare, così per un paio d’ore esco a camminare, o mi metto ad ascoltare un po’ di musica, giusto il tempo per sentire che sono ancora viva».
Il Mattino