No, nemmeno l’occasione – i suoi rituali consolidati, il suo cerimoniale orgoglioso, la sua proiezione globale – è riuscita a rendere un po’...
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Il primo è l’impegno a promuovere una svolta drasticamente protezionista in economia. «Seguiremo due regole: comprare americano, assumere americani (buy American; hire American)», ha promesso Trump, calcando ancor più la mano su uno dei temi centrali del suo messaggio elettorale. Con una lettura della storia a dir poco discutibile, Trump è tornato a denunciare i processi d’integrazione economica globale dell’ultimo cinquantennio come nocivi per gli Usa: come fattori d’indebolimento di un paese troppo ingenuo e generoso, e quindi frequentemente derubato da avversari più cinici, capaci e scaltri.
Il secondo asse è rappresentato dall’unilateralismo. L’impegno a proteggere l’America e gli americani dalla concorrenza sleale, e a rilanciare quindi l’industria statunitense, poggia sulla disponibilità, se non la necessità, ad agire unilateralmente. Non vi è stata menzione della comunità internazionale e solo un breve cenno alle alleanze di cui gli Usa fanno parte. Le relazioni internazionali sono state invece presentate come un’arena di competizione e conflitto: un sistema anarchico dove ognuno cerca di massimizzare i propri obiettivi a discapito di quelli degli altri. «È un diritto di tutte le nazioni anteporre i propri interessi», ha affermato Trump. Una lettura, questa, assai lontana dai dettami basilari dell’internazionalismo statunitense, repubblicano e democratico, secondo i quali è compito e responsabilità degli Stati Uniti intervenire nelle vicende mondiali per indirizzarne il corso in accordo con i propri principi e valori.
Terzo asse: un populismo anti-establishment dal quale il discorso ha preso le mosse. Un attacco a Washington e a una politica corrotta e auto-referenziale che avrebbe rubato l’America agli americani. «Non stiamo solamente trasferendo il potere da un’amministrazione all’altra - ha affermato Trump - Stiamo trasferendo il potere da Washington e lo stiamo restituendo a voi, il popolo». Un populismo, quello di Trump, che suona in una certa misura stridente sulle labbra tanto di un presidente quanto di un miliardario, ma che evidentemente tocca corde profonde nel paese.
Quarto e ultimo: una riflessione tutta centrata sull’idea che gli Usa soffrano di un declino cui Obama non solo non avrebbe dato risposta, ma che le sue politiche avrebbero attivamente, e colpevolmente, accelerato. Con una sconcertante iperbole, Trump ha parlato di una «carneficina dell’America» (American carnage) in riferimento allo stato in cui gran parte del paese verserebbe, a partire dalle sue città infestate dalla criminalità, «dalle droghe e dalle gang che troppe vite» avrebbero «rubato».
Non è ovviamente così. Tutti gl’indicatori mostrano come l’America sia oggi assai più sicura, e le sue città più vivibili, rispetto a qualche anno fa. Ma nel mondo della post-verità in cui Trump pare spesso abitare questo conta poco o nulla. Il tutto sembra però rendere assai poco realistiche le promesse del neo-presidente, sul piano della politica interna così come di quella internazionale. Da domani si volta pagina. La retorica potrà anche rimanere invariata, ché Trump ha dimostrato ieri di non conoscere altro linguaggio; la quotidianità della politica e dell’interazione con il Congresso imporrà però a Trump un bagno di realismo da cui in ultimo dipenderà il successo o meno delle sue politiche. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino