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Fu un’evasione clamorosa. Una beffa, sotto gli occhi di decine di agenti della polizia penitenziaria. Sembrava sconfitto il potente clan camorristico di Carmine Alfieri, sotto i colpi delle inchieste giudiziarie scaturite dalle accuse di pentiti, come Pasquale Galasso e lo stesso Alfieri. Era stata l’organizzazione camorristica vittoriosa nella guerra contro i cutoliani prima e poi contro i clan Nuvoletta-Gionta, neutralizzati dall’alleanza dei gruppi Alfieri-Bardellino. Nel 1998, quelle vicende erano al centro di decine e decine di processi, con centinaia di imputati e molti di loro erano destinati a condanne all’ergastolo. Proprio in quell’anno, l’improvviso colpo di coda degli affiliati irriducibili. Quelli più spietati. Come Geppino Autorino, 52 anni, di professione ufficiale commerciante e trasportatore, in realtà killer e amico fedele di Alfieri, uno degli uomini nel direttivo del clan guidato da don Carmine, insieme con Pasquale Galasso, Enzo Moccia, Ferdinando Cesarano, i fratelli Pasquale e Salvatore Russo, Fiore D’Avino.
Era il 21 giugno del 1998, una calda giornata estiva nell’aula bunker del Tribunale di Salerno ricavata da una ex palestra di una scuola alla periferia cittadina, a ridosso della tangenziale e di alcuni terreni agricoli nell’area industriale di Fuorni. Geppino Autorino e Ferdinando Cesarano, 44enne capoclan della zona di Pompei, erano seduti nel gabbiotto degli imputati di uno dei processi dalle pesanti accuse di associazione camorristica, estorsioni, omicidi. Il Tribunale doveva giudicare 44 imputati, affiliati ai clan Alfieri della provincia napoletana e al clan Maiale della Piana del Sele. Autorino e Cesarano il colpaccio l’avevano organizzato da tempo e studiato con l’aiuto di complicità esterne. Erano le 17,30 del pomeriggio, in aula c’era il pm Ennio Bonadies della Dda salernitana, in fondo il gruppo dei magistrati giudicanti. Gli agenti della polizia penitenziaria avevano trasferito Autorino e Cesarano dal carcere napoletano di sicurezza nel quartiere di Secondigliano fin dentro una delle quattro gabbie predisposte per gli imputati nell’aula bunker.
Come agli altri, anche a Autorino, considerato dagli inquirenti spietato killer esecutore delle azioni più sanguinose del clan Alfieri, e Cesarano, definito “lucido organizzatore di delitti”, vennero tolte le manette. Poi la gabbia, dove in tutto gli imputati erano sette, fu richiusa. In un caldo che toglieva il respiro, iniziava l’udienza che andò avanti per oltre un’ora fino alla sospensione momentanea in attesa che uno dei testimoni fosse accompagnato in aula. Fu il momento scelto dai due camorristi, che con determinazione e senza alcuna esitazione si fecero un cenno con gli occhi alzandosi di scatto dalle panche in legno dove erano seduti. Gli altri cinque fecero da volontaria barriera agli sguardi esterni alla gabbia. Con colpo secco, le mattonelle nel retro sprofondarono nel vuoto. Erano solo una leggera copertura al cunicolo scavato con abilità e largo quanto bastava per consentire il passaggio dei due uomini che arrivava proprio sotto le panche. Si lanciò subito Autorino, poi Cesarano, mentre i poliziotti si accorsero del movimento e spararono in aria alcuni colpi di pistola. Inutile, i due scivolarono nel tunnel lungo cinque metri, dove erano state lasciate delle pistole e bombe a mano. Raggiunsero l’esterno, mentre i detenuti rimasti nel gabbiotto rimisero a posto la copertura del cunicolo. Questioni di secondi. I due si arrampicano su una scarpata di dieci metri, saltando poi sul ponte della tangenziale salernitana per fermare una Fiat punto di passaggio. Minacciarono con le pistole il proprietario che fu fatto scendere. Poi via, per quattro chilometri di corsa fino a Pontecagnano dove li aspettavano dei complici in moto. Una beffa, che provocò lo sdegno dei ministri Giorgio Napolitano e Giovanni Maria Flick responsabili dell’Interno e della Giustizia. Il giorno dopo, furono convocate più riunioni allarmate, mentre venivano intensificati i posti di blocco. La prima decisione fu la rimozione del questore di Salerno, Ermanno Zanforlino unita alla contemporanea richiesta di trasferimento per il procuratore generale di Salerno, Paolo Russo de Cerame.
La beffa
Nel cunicolo, oltre ad alcuni involucri di merendine, gli inquirenti trovarono un bigliettino con la scritta “Grazie di tutto e ciao ciao”.
Ma le carte degli inquirenti erano invece piene di dettagliate ricostruzioni di episodi violenti con la partecipazione di Autorino. Come i sanguinosi assalti contro il clan Gionta a Torre Annunziata nell’agosto del 1984 e nella masseria dei Nuvoletta a Poggio Vallesana a Marano. Dopo le due evasioni del giugno 1998 il clan, che si era infiltrato in tutti i grossi appalti in provincia di Napoli e aveva terrorizzato dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso un intero territorio, aveva di nuovo liberi tre dei suoi più pericolosi vertici: Autorino, Cesarano e Marzio Sepe. Ma era proprio “Geppino” Autorino, che aveva ammesso i suoi rapporti, ma “solo di amicizia”, con Alfieri tanto da andare in vacanza all’isola d’Elba con uno dei suoi figli per cinque anni, il più determinato e irriducibile. Fino all’estremo. Erano passati solo nove mesi dalla fuga, che la vita violenta di Autorino terminò nel sangue come era proseguita per quasi 20 anni. Il 21 marzo 1999, fu intercettato in auto da un posto di blocco dei carabinieri. Tentò la fuga, sparando. I carabinieri reagirono e Autorino ebbe la peggio. Fu colpito a morte, vittima della sua scelta di camorrista irriducibile. «State continuando nella vostra strada sbagliata», gli aveva detto nel confronto in aula il pentito Galasso cinque anni prima. Una strada senza speranza, così descritta dal procuratore generale di Napoli, Renato Golia: «Il clan Alfieri aveva controllo militare, economico e politico del territorio, con presenza inquinante su ogni attività economica e in parte politica». Non c’era futuro nel clan Alfieri, sconfitto come altri gruppi dalle inchieste giudiziarie.
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