La prima volta di De Laurentis: «Folgorata dalle stelle, decisi di svelare l'ignoto»

La prima volta di De Laurentis: «Folgorata dalle stelle, decisi di svelare l'ignoto»
Era solo una bambina, Mariafelicia De Laurentis, quando, con lo sguardo rivolto verso il cielo, pensò che le sarebbe piaciuto entrare nella mente di Dio. Cominciò...

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Era solo una bambina, Mariafelicia De Laurentis, quando, con lo sguardo rivolto verso il cielo, pensò che le sarebbe piaciuto entrare nella mente di Dio. Cominciò guardando le stelle, con attenzione e pazienza, la sera prima di andare a dormire: sperava in un segnale, un guizzo, un'intuizione che la mettesse in contatto con un'altra dimensione. Invece niente: guarda e riguarda, scruta e osserva, del Padreterno nessuna traccia. Non è possibile, qualcosa deve pur esserci. E io lo scoprirò diceva tra sé e sé la piccola Mariafelicia, mentre, munita di binocolo, continuava a esplorare la volta celeste. Nessuno avrebbe potuto immaginare, guardandola lì - in piedi su una sedia, con il naso appiccicato alla finestra e lo sguardo rivolto verso l'alto - che quella ragazzina, nata a Napoli ma cresciuta ad Acerra, avrebbe fatto parte del miglior team di scienziati del mondo, in grado di catturare l'immagine del buco nero.


La foto del millennio.
«Quello scatto è stato il primo che ha reso possibile osservare un oggetto cosmico invisibile. Non si può descrivere l'emozione che provammo, piansi a lungo. E ancora oggi, quando ci penso, mi vengono i brividi».

Andiamo con ordine.
«Novembre 2018. Eravamo a Nijmegen, Olanda, a pochi chilometri dalla Germania. Lavoravamo lì. Il meeting si svolgeva nella cappella dell'università, un luogo mistico, ricordo ancora quegli strani giochi di luce sul pavimento, riflessi attraverso grandi vetrate colorate».

Momenti suggestivi.
«Quando arrivò il nostro direttore Sheperd Doeleman, e insieme, per la prima volta, vedemmo l'ombra di un gigantesco buco nero al centro di una galassia distante 55 milioni di anni luce dalla terra, ci guardammo senza dire una parola: avevamo reso visibile l'invisibile. Ciò che per anni era esistito solo attraverso equazioni e simulazioni, finalmente era lì, sotto i nostri occhi».

Un'emozione enorme.
«Una delle più belle della mia vita. Credo paragonabile alla nascita di un figlio. Dopo cinque anni di duro lavoro mi sono sentita come una bambina che ha coronato il sogno della vita».

Facciamo un passo indietro. Come ci è finita nel team del buco nero?
«Parto dall'inizio».

Da quando voleva entrare nella mente di Dio?
«Se non fossi stata fortemente attratta dall'ignoto e dalla voglia di guardare oltre le cose terrestri, non mi sarei iscritta alla facoltà di Fisica teorica della Federico II dove concentrai tutta la mia attenzione sui sistemi di stelle binarie e sulle onde gravitazionali. Poi feci le valige».

Per andare dove?
«Torino. Conseguii un dottorato di ricerca al Politecnico, che fu l'inizio della svolta. Vinsi un premio come migliore studentessa e mi ritrovai a fare ricerca a Barcellona. Nello stesso tempo, collaboravo con un professore russo che studiava le teorie estese della gravitazione - un luminare, che mi convinse a spedire un curriculum all'università di Tomsk».

Dalla Spagna alla Russia.
«Mi affascinava l'idea di lavorare nella più antica università tecnica dell'Unione Sovietica, una vera e propria eccellenza. Volevo provarci. Peccato non aver chiesto subito dove si trovasse precisamente Tomsk: avrei scoperto prima, che ero diretta in Siberia».

E ci è andata?
«Certo. Valutarono il mio curriculum e mi offrirono un contratto per insegnare Fisica della gravitazione. Un'occasione che non potevo lasciarmi sfuggire. Era il 2014, partii in primavera, la temperatura era ancora accettabile; poi venne l'estate e si stava pure meglio: non faceva mai caldo, ma neanche freddo - l'ideale».

Peccato che ben presto sarebbe arrivato l'inverno.
«Meno 35. Una napoletana non è progettata per reggere quelle temperature. La sera piangevo e, prima di addormentarmi, ascoltavo la registrazione della risacca del mare. Ma non mollavo: la passione per la fisica era più forte, sapevo di essere nel posto giusto. Anche se Tomsk è un luogo strano».

In che senso?
«Mi sembrava di vivere nel film Non ci resta che piangere: un tuffo nel passato, una bella città ma fuori dal tempo. Non c'è un turista manco a pagarlo. Ogni tanto me lo chiedevo: Ma chi me lo ha fatto fare?». 

Quanto tempo ci è rimasta in Siberia?
«Quasi quattro anni».

E il buco nero?
«Mentre ero in Siberia, vengo invitata a partecipare a una conferenza in Germania, a Bad Honnef. Lì rivedo il professore Luciano Rezzolla, direttore dell'istituto di Fisica teorica dell'Università di Francoforte: mi dice che gli hanno dato 14 milioni di euro per provare a catturare la prima immagine del buco nero, e vuole che faccia parte del team».

Un'occasione imperdibile.
«Non aspettavo altro. Addio Siberia, si va a Francoforte».

E qui comincia l'avventura.
«Era la prima volta che lavoravo in una squadra di tante persone - una collaborazione totale, che mi ha fatto scoprire il piacere di mettere il proprio sapere a disposizione degli altri, per raggiungere un obiettivo comune. È stata dura, tra alti e bassi, gioia e scoraggiamento, ma alla fine abbiamo stravinto».

Ultimo ricordo?
«Una telefonata».

Quale?

«Quella del Magnifico Rettore. Quando si diffuse la notizia che nel gruppo di Francoforte c'era anche un professore della Federico II, mi squillò il cellulare: Buongiorno Mariafelicia, sono Gaetano Manfredi. Volevo farti i complimenti, sei il nostro orgoglio. La sua voce mi emozionò quasi più di quando avevo visto il buco nero». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino