L’autocertificazione va bene, anzi no. O invece sì. Nella ridda di provvedimenti emergenziali, circolari applicative e interpretazioni discordanti capita anche...
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Ma andiamo per ordine. Gerardo abita a Mercato San Severino e lavora a Salerno, dove collabora in una comunità di Fratte per l’accoglienza di minori non accompagnati richiedenti asilo. Non ha la patente, e prima dell’emergenza coronavirus utilizzava per i suoi spostamenti i mezzi pubblici. Quando la paura del contagio ha iniziato a diffondersi ha concordato con i responsabili della struttura un atteggiamento più cauto: evitare autobus e treni per ridurre al minimo le occasioni di contatto con altre persone e salvaguardare così non tanto se stesso quanto gli ospiti della comunità. Da quel momento di documenti da esibire ne ha quattro: quello standard predisposto dal Ministero dell’Interno (con cui attesta lo spostamento dal comune di residenza per ragioni lavorative), un altro che certifica il rapporto di collaborazione con il centro di accoglienza, un terzo con cui i datori di lavoro gli chiedono di non utilizzare il trasporto pubblico e infine l’autocertificazione del fratello, che spiega di essere con lui per condurlo al lavoro.
«Prima di predisporre tutto mi sono preoccupato di contattare la centrale della polizia municipale per essere sicuro che non ci fosse bisogno di altro – spiega – Mi hanno detto che andava bene così e quindi mi sentivo tranquillo». Si sbagliava, perché documenti e spiegazioni non sono bastati a convincere una pattuglia di vigili urbani che a Fratte ha bloccato il fratello di rientro a San Severino e lo ha denunciato, ritenendo insufficiente la sua giustificazione. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino