Don Peppe, il cuoco degli ultimi: «Cucino all'alba per sfamare 200 figli»

Don Peppe, il cuoco degli ultimi: «Cucino all'alba per sfamare 200 figli»
Il cuoco che sfama 200 figli è pieno d'umanità mai esibita. Di viola vestito, con la stessa maglia a strisce indossata in una foto-ricordo di quattro anni fa....

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Il cuoco che sfama 200 figli è pieno d'umanità mai esibita. Di viola vestito, con la stessa maglia a strisce indossata in una foto-ricordo di quattro anni fa. «Non bado alle cose esteriori, altre restano», si schermisce Peppe Lavalle, 75 anni di Fuorigrotta, quando la sua Emilia fa notare il dettaglio e racconta che, se non fosse per la mamma, lui non rinnoverebbe il guardaroba. «E cambia le scarpe solo quando le ha consumate». La ragazza bionda, di 32 anni, con la voce sottile, lo sguardo vispo e un'ammirazione senza fine per il papà, dice pure che gli è stata affidata alla nascita e mostra un cartellone a lui dedicato, il suo «più grande dono». «Più bella cosa non c'è...», prende in prestito i versi di una canzone di Eros. E si commuove: «La mia famiglia è la più grande ricchezza». Una famiglia straordinaria proprio perché allargata.


Da quarant'anni Peppe, che tutti chiamano don o zio, come un prete o un parente stretto, cucina per i detenuti di Nisida, nel carcere d'avanguardia con il direttore Gianluca Guida, dove sono appena stati il premier Giuseppe Conte e il maestro Riccardo Muti. «Il tentativo è quello di far sentire i ragazzi a casa, sin dal primo momento, anche quando non vogliono fare nulla». Ogni giorno ripete loro che si può cambiare, e li mette alla prova. «E, se sono tristi, perché sentono la mancanza del mondo di fuori, è il momento di agire». Si inizia assegnando piccoli compiti per capire se la fiducia è ripagata. «Nei cassetti ci sono i coltelli, tutto può essere pericoloso, in carcere c'è sempre qualcuno che comanda e può tentare o chiedere di prendere qualcosa». Superato il test, ai giovani viene insegnato a pelare le patate o i pomodori: giorno dopo giorno, imparano un mestiere. Lavalle cura pure un laboratorio di rosticceria, questo è stato, tra l'altro, il suo primo lavoro. «Cambiai per l'istituto, anche se qui guadagnavo di meno: in origine il mio compito si esauriva nel giro di due ore. Ma mia moglie mi spronò a pensare innanzitutto alla salute, visto che nel negozio restavo invece fino a sera, i turni erano pesanti». Consorte da 51 anni, Giuseppina D'Angelo riassume in poche parole una vita: «Siamo sempre stati insieme». Ai due figli, «quasi per caso», si è aggiunta Emilia. E poi tanti altri come Salvatore, che adesso abita in Germania, Bruno o Victor, Samir, conosciuti in questi luoghi di rieducazione, anche attraverso i loro ricordi di storie atroci. Genitori accoltellati, affiliati ai clan più temibili non persi più di vista. «Quanti sono stati a casa mia nel fine settimana o dopo il fine pena», sospira Peppe, spiegando che «ogni tanto si vede sbucare una testa». In una cartellina lo chef conserva i biglietti di auguri ricevuti a Natale, i cuori disegnati, le frasi di ringraziamento. Qualcuno lo chiama pure nonno: «Spero con tutto il cuore che è sia passato l'affredore e perché una persona come te gli auguro un gran bene. Grazie di tutto cio che tu sei stato viccino è ogni cossa che hai fatto per noi. E soprattutto per la tua simpatia», firmato Giulia. «Ti voglio bene», Sharon. «Sono passati tanti anni e non voglio credere che voi non vi ricordate di me... Mi avete sempre trattato e cresciuto come un figlio», esordisce in questo caso un ex detenuto, che adesso ha il suo ragazzo nell'istituto penitenziario di Napoli, ed è preoccupato. «Mi rivolgo a lei per un buon occhio, visto che lui non ha buona scuola ed esperienza, se voi mi fate la cortesia di tenerlo... come un buon padre, come lo siete stato per me». La foto con la stessa maglia che fa vedere Emilia è invece scattata con la comunità di Sant'Egidio. Da quattro anni Lavalle prepara, infatti, gratuitamente anche i pasti per i senzatetto nei pressi della stazione di Campi Flegrei. «Mi alzo all'alba ma sono felice», annuisce. Così il venerdì si mette ai fornelli alle 6 del mattino, coinvolgendo anche i detenuti, e con la gente riunita in parrocchia completa la distribuzione dei cestini, ormai oltre cento, alle 10 di sera. «Scoprimmo questo per caso perché Laura Amideo, dell'associazione, ci invitò a un convegno», affermano Emilia e Giuseppina che da allora si sono sentite parte del progetto. «Il nostro impegno non si esaurisce nell'offrire un piatto caldo: organizziamo feste il 25 dicembre e in occasione delle altre ricorrenze, azzeriamo le distanze, chiacchieriamo di problemi comuni. Stando insieme non ci sono più differenze», aggiunge la 32enne che partecipa, con la stessa Comunità, anche alla Scuola della pace nel circolo didattico Domenico Fatale di Pozzuoli. «Le attività si basano sempre sul volontariato, ed è importante coinvolgere i colleghi e i vicini: l'unione fa la forza». Emilia è della stessa pasta del padre, e ne è orgogliosa. Tutta la famiglia dimostra che può bastare una scintilla per accendere il fuoco, e scaldare il mondo. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino