Giusy Versace: «Io, la prima donna italiana a correre senza le gambe»

Mentre risponde al cellulare alle domande per la nostra intervista, Giusy Versace s'infila l'auricolare perché deve fare manovra con l'auto per uscire dal...

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Mentre risponde al cellulare alle domande per la nostra intervista, Giusy Versace s'infila l'auricolare perché deve fare manovra con l'auto per uscire dal parcheggio. È appena atterrata a Linate, deve correre per andare ad allestire una mostra, poi ancora correre per un'iniziativa contro i femminicidi. Così questa è un'intervista fatta di corsa a un'atleta paralimpica, conduttrice, ballerina, coreografa, autrice di libri, fondatrice di Onlus, parlamentare. «Eh, mi manca solo di fare un giretto nello spazio», dice ridendo Giusy e intanto saluta il gestore del parcheggio, poi anche suo fratello che per caso sfreccia in motorino da quelle parti.

Prima, chiacchieriamo un po' di Paralimpiadi. Hanno portato alla ribalta la disabilità e fatto scoprire a molti quanto coraggio e determinazione ci siano dietro le imprese di atleti speciali. Ed è per non correre il rischio che tutto ciò venga presto archiviato che ascoltiamo la storia di Giusy Versace, che quest'anno a quelle gare non ha partecipato ma le conosce assai bene. Intelligente, brillante, di abbagliante bellezza mediterranea, ha saputo mantenere e accrescere le gioie regalatele da una vita poi incrudelita contro di lei al punto da privarla delle gambe. Le sue risposte fanno risaltare l'identità più potente di questa donna multitasking, gazzella in corsa su due gambe artificiali: è quella della maestra di vita.

Giusy, che significa perdere le gambe in un incidente a 28 anni e come si fa a reinventarsi fino a diventare un'atleta in una disciplina mai praticata prima, e a vincere un'Olimpiade, due mondiali, tre europei e un gran numero di gare internazionali?
«A volte, quando ci penso, mi stupisco io per prima. Quest'anno, il 22 agosto, ho festeggiato i 16 anni da quel 2005 dell'incidente. Sì, è una data che festeggio perché da lì è partito l'impulso che mi ha spinta a sfide inimmaginabili. Il vero motore di tutto è stata la mia fede. Non la ostento ma nemmeno la nascondo, però se non l'avessi avuta mi sarei irrigidita, chiusa, incupita. Ogni giorno ho ringraziato per i primi piccoli risultati: alzarmi dal letto, tirarmi su dalla sedia a rotelle, poter bere un bicchier d'acqua. Poi c'è stata la fortuna di avere una famiglia di persone eccezionali. Come mia madre, che mi ha sempre detto: Dio toglie, ma anche dà».

Come mai ha scelto proprio la corsa e com'è entrata in questo mondo?
«Io facevo altro, lavoravo nella moda, non nell'azienda di famiglia dei miei cugini Versace, ma per altre, concorrenti. Ero una sportiva come tante, non un'atleta, giocavo a tennis di domenica con gli amici. Avevo le gambe, ma non correvo se non nel senso in cui lo si fa quando si vive e si lavora a Milano. Ho imparato a usare le gambe quando le ho perse. Per curiosità andai a vedere le gare di atleti paralimpici, mi incuriosirono il loro mondo e gli arti artificiali. Non pensavo a gareggiare, ma a tornare a provare la sensazione del vento nei capelli. In realtà poi l'ho fatto perché c'era chi mi diceva che non potevo farlo, che non ero adatta: troppo magra, e poi sculettavo. La prima volta ho sorriso, la seconda mi sono arrabbiata, la terza nella calabrese che è in me è saltata fuori la voglia di provarci per ripicca. Erano gli anni in cui Pistorius stupiva il mondo correndo con due protesi, io diventai la prima donna a correre senza le gambe. I giornali si appassionarono e io vinsi il primo dei miei titoli italiani. Fu tardi, nel 2010. E dire che non avrei scommesso mezzo euro su di me».

Senza l'incidente la sua vita sarebbe stata diversa?
«Sì. Sarei stata una manager della moda come tante, non avrei fatto neanche la metà delle cose realizzate. Ma non ho mai pianificato nulla, non lo faccio nemmeno adesso. Semplicemente mi dico: perché no? Anche quando mi proposero di partecipare a Ballando con le stelle andò così. Chi avrebbe mai immaginato che avrei addirittura vinto?».

Si è mai sentita discriminata, guardata con occhi compassionevoli, o anche peggio?
«Sì, ci sono stati episodi del genere. Uno in particolare, che racconto nel mio primo libro, Con la testa e con il cuore si va ovunque. Un anno dopo l'incidente ero su una spiaggetta sulla quale sono cresciuta e dopo un tuffo mi era entrata un po' d'acqua in una gamba. La tolsi, la misi ad asciugare cercando di non dare nell'occhio. Una bimba cercò di avvicinarsi, la madre la bloccò, le mise la mano sugli occhi. Mi fece più male di una coltellata. Penso non sia stato un fatto di cattiveria, ma d'ignoranza e da allora ho deciso che non mi sarei mai vergognata, né nascosta. I delinquenti devono vergognarsi, non io. Ma capii anche che avrei dovuto corazzarmi».

In Parlamento, dov'è stata eletta nelle liste di Forza Italia, si è mai sentita a disagio?
«No. Forse anche per il mio approccio alla disabilità: io corro da un banco all'altro, vado su e giù per le scale... Quest'anno poi ho tenuto ad andare al giuramento di Draghi anche se avevo subìto un intervento. Non potevo mettere una gamba, così andai in sedia a rotelle e con una gamba sola, ma mi tirai su aiutandomi con le stampelle. I colleghi erano quasi sorpresi: ci eravamo dimenticati che non avevi le gambe».

A volte il mondo dei media mette i disabili al centro di una specie di operazione di marketing. C'è il rischio, in alcuni casi, di una sovraesposizione?
«A volte sì, dipende dalle sensibilità personali, ma vale anche per altre cose. Io credo che il discorso giusto da far passare sia quello veicolato dal racconto degli atleti paralimpici che stimolano questo pensiero: lo ha fatto lei, posso farlo anch'io. L'effetto sport è incredibile, così oggi in spiaggia i bambini mi riconoscono, si avvicinano, mi chiedono foto e autografi. I maschi mi vedono come atleta, le femmine come ballerina. Penso che ci sia bisogno di una scossa per affermare due cose: prima, per lo più disabili non si nasce, ma si diventa e potrebbe capitare a tutti; secondo, abolire le barriere migliora la vita di tutti, anche della signora che deve passare con il passeggino. Pochi sanno che gli audio messaggi whatsapp sono stati inventati per una persona cieca, eppure li usiamo tutti. Bisogna creare ambienti accessibili e magari anche belli, ispirati all'universal design, fa bene alle città e a tutti i loro utenti».

Molti giovani si scoraggiano facilmente di fronte a difficoltà pure esistenti, ma sembrano non trovare la forza di superarle. Che direbbe loro?


«A me sembra che questo atteggiamento riguardi anche molti adulti. La prima cosa che dico, anche negli incontri con le scuole, è questa: la vita è fatta di sacrifici, nessuno ti regala niente. Vivere vuol dire allenarsi costantemente. È come fare la corsa dei 400 a ostacoli, non c'è uno che te li toglie davanti e ti spiana la strada. Però il sacrificio alla fine ti premia. Io mi sono alzata dalla sedia a rotelle, sono caduta, ho pianto, sanguinato, sentito dolore. A volte gli arti mi fanno male, a volte zoppico, ma poi mi torno a rialzare. Ora la pandemia, che ci ha messo in ginocchio, ha fatto capire un po' a tutti com'è la vita. Certo i cambi spaventano sempre, ma difficile non vuol dire impossibile. E vince chi si allena, chi resiste di più». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino