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«Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita». Il memorabile incipit di Paul Nizan si potrebbe trasporre nell'Italia di oggi: i ventenni, nel senso di coloro che hanno tra i 20 e i 29 anni, non possono certo dire di essere la fascia di età più influente ed anzi anche in termini strettamente numerici stanno diventando sempre meno rilevanti. Attualmente - apprendiamo dai dati Istat - sono poco più di 6 milioni, oltre tre milioni in meno rispetto a trent'anni fa quando però la popolazione complessiva era meno numerosa. In percentuale quindi la loro incidenza scende ancora più vistosamente, dal 16,2 del 1991 ad un esiguo 10,2 a inizio 2020. Per fare un confronto, i residenti tra i 50 e i 59 anni sono 9,5 milioni.
La tendenza all'invecchiamento della popolazione è naturalmente comune al resto d'Europa, ma la percentuale italiana di popolazione tra i 20 e i 29 è è la più bassa del continente, appena al di sotto di quella spagnola mentre Francia e Germania si collocano tra l'11 e il 12 e i Paesi scandinavi riescono a mantenersi intorno al 13.
Negli ultimi cinque anni anzi la platea totale si è ridotta di oltre 200 mila unità: più di un quarto di questo calo è dovuto ai ragazzi stranieri (o più precisamente alla loro componente femminile): dato molto significativo anche tenendo conto del “travaso” dovuto alle acquisizioni di cittadinanza. Inoltre – sebbene si tratti di numeri molto limitati in rapporto alle grandezze demografiche – inizia ad incidere anche il flusso in uscita dei giovani, compresi gli under 30, che lasciano il nostro Paese per completare gli studi o lavorare all'estero.
In una fase di emergenza come quella attuale si può certo pensare, almeno in parte a ragione, che ci siano problemi ben più gravi e urgenti da affrontare; e nel dibattito pubblico i giovani sono evocati per lo più come possibili diffusori del contagio. Eppure l'idea della marginalità dei ventenni (quella numerica è solo un aspetto) dovrebbe farci riflettere e forse preoccuparci un po'.
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