Novella Calligaris, parlo di me: «Ero pestifera e Bubi mi fece gareggiare negli 800 per farmi stare zitta»

Novella Calligaris, parlo di me: «Ero pestifera e Bubi mi fece gareggiare negli 800 per farmi stare zitta»
Sono cinquant'anni che Novella Calligaris ci salva la vita. Quando da ragazzina minuta vinse la prima medaglia del nuoto italiano a un'Olimpiade - era il 30 agosto del...

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Sono cinquant'anni che Novella Calligaris ci salva la vita. Quando da ragazzina minuta vinse la prima medaglia del nuoto italiano a un'Olimpiade - era il 30 agosto del 1972 - le statistiche dicevano che 1.500 persone morivano in mare, ogni estate. Per diventare come lei, un Paese andò a iscriversi in piscina. La cifra del dramma si dimezzò nel giro di un triennio. È questa la sua prima grande vera eredità, molto in anticipo sui 24 ori e le 67 medaglie agli Europei della settimana scorsa a Roma. Ha lavorato nel marketing, fa la giornalista («Mi piacerebbe intervistare Sonia Gandhi»), è la presidente degli olimpici azzurri di ogni epoca, l'associazione che promuove i valori dell'attività motoria, della vita sana, il diritto allo sport. «Sarebbe un grande risparmio per la Sanità e una grossa spinta all'istruzione. Non è più tempo di dualismo con la scuola». 

Quando si è accorta di aver cambiato la società italiana?
«Non subito. Avevo 16 anni. Il nuoto entrò nelle case delle famiglie perché ero un'anomalia, mi chiamavano la ragazza della porta accanto. Esile, non altissima, una adolescente come tante. Un allenatore della Nazionale femminile sosteneva che noi italiane fossimo di una razza inferiore rispetto a slave o britanniche. Molti invece capirono che si poteva raggiungere un risultato a prescindere dal fisico, e lo dissero alle proprie figlie, alle sorelle, alle nipoti. Aprirono piscine ovunque, anche negli scantinati. Aumentò il numero dei corsi. Passò il concetto che insegnare a nuotare a un bambino, era un'assicurazione sulla vita. L'Italia aveva scoperto la villeggiatura negli Anni Cinquanta. Con le mie vittorie si capì che non si poteva andare al mare senza aver imparato a nuotare».

Lei come aveva imparato?
«Vengo da una famiglia mitteleuropea. I miei erano triestini, un nonno della Baviera, una nonna francese, un'altra montenegrina e il cognome viene da alcuni antenati di origine greca, Salonicco, che avevano fatto nascere una colonia di Calligaris in Friuli. La mentalità di casa prevedeva che lo sport fosse una forma di educazione, non solo attività fisica. Mio padre aveva la barca, insegnò subito a me e mio fratello a nuotare per ragioni di sicurezza. A mare ho imparato a stare a galla, nel frattempo ci eravamo trasferiti a Padova, dove i bambini o giocavano a rugby o facevano nuoto. Mio fratello aveva scelto la piscina e io gli stavo attaccata. Era la mia spalla, la mia anima, il mio tutto. Abbiamo vissuto in simbiosi. Furono costretti a prendermi in squadra. In città esisteva un centro sportivo all'americana, costruito da un mecenate come Simone Grassetto, proprietario delle imprese impegnate nei lavori per le autostrade. La sua famiglia era molto amica della mia. Regalò alla Rari Nantes Patavium una vasca da 50 metri, una da 25 al coperto, dei campi da tennis e portò in città i migliori allenatori d'Italia».

Fu così che conobbe Bubi Dennerlein?
«Era l'allenatore della Nazionale maschile, per un periodo ebbe il doppio incarico. Mi faceva allenare con gli uomini. Un giorno decise che dovessi gareggiare negli 800 metri. La distanza più lunga. Ne fui seccata, gli chiesi il motivo. Rispose: Così per 12 minuti stai zitta. Ero vivace, per non dire pestifera. Non poteva immaginare che avrei fatto il sesto tempo di sempre. Eppure non mi portò ai campionati italiani. Mi frenava molto. Nemmeno ai Giochi in Messico del 68 voleva portarmi. Avevo il tempo per partecipare, ma avevo pure 13 anni. Me lo fece ripetere trenta volte pur di lasciarmi a casa. Dovette intervenire Giulio Onesti, presidente del Coni».

Perché faceva così?
«Ripeteva: sei piccola. Aveva ragione. Piccola e sola. In Italia non c'erano altre donne vincenti. Sara Simeoni era più grande di me, ma esplose dopo. Paola Pigni eccelleva in una specialità non olimpica. La pressione mediatica era fortissima. Mi portò a Napoli 14enne, ai campionati italiani, e mi iscrisse a 7 gare perché dovevo imparare a perdere. Le vinsi tutte. Feci anche il mio primo record europeo, nella vasca alla Mostra d'Oltremare. Si mise le mani nei capelli. Mi disse solo: non ti montare la testa. Grazie a Bubi non me la sono mai montata».

Un'altra ragazza di Padova, negli stessi anni, cambiò la società italiana. Gigliola Pierobon andò a processo per un aborto clandestino. Dopo non è più stato un reato. Nei suoi 16 anni che spazio c'era per manifestazioni e impegno civile?
«Nella mia fascia d'età, il caso Pierobon non era molto sentito. Ma io sono sempre stata una rivoluzionaria. Qualunque cosa ci fosse da capovolgere, ero da quella parte. A Padova frequentavo il liceo scientifico, facevo molte assenze per il nuoto, ogni tanto si aggiungeva uno sciopero. Erano tempi di scarsa disponibilità degli insegnanti verso noi atleti. Il giorno dopo una vittoria in piscina, ne dovevo trascorrere una chiusa in casa a studiare. Al ritorno mi avrebbero interrogata. Hai vinto in acqua, vediamo se vinci pure a scuola: questa era la mentalità. Quando per uno sciopero murarono l'ingresso, mio padre voleva obbligarmi a entrare da una porta secondaria. Lo avrei ucciso».

Che libri c'erano in casa sua?
«Di ogni genere. Mia madre era appassionata di letteratura e arte. Ho letto molto da ragazza, anche cose non di moda, vicine alle radici della mia famiglia, dico da Henry Roth a Stefan Zweig, Andavo a cercarmi cose particolari, secondo la storia personale dell'autore, o magari perché mi piaceva un titolo».

C'è qualcosa che a 16 anni non sapeva e che le sedicenni di oggi conoscono?
«Tutto. Loro sanno tutto. Il paragone è impossibile. Il mondo dei social e di Internet ha cambiato le esperienze adolescenziali. I like hanno trasformato lo spazio comune in uno spazio per la competizione. Eppure si fa sempre gruppo alla stessa maniera, come noi che stavamo sedute su un muretto. Sento ancora ogni giorno le ragazze con cui dividevo la stanza in Nazionale, anche se abbiamo preso strade diverse. Lo sport è un network».

In un'intervista, qualche giorno fa, Sara Simeoni ha detto che le sarebbe piaciuto avere Instagram da ragazza.
«Ho letto e mi ha sorpreso. Lei ha la sua mentalità, la mia è diversa. Non mi piace stare davanti a un obiettivo. Non mi piaceva nemmeno quando nuotavo. Fuggivo».

Niente selfie?
«Un selfie lo faccio se c'è un motivo. L'ultimo è stato con la staffetta mista che ha vinto agli Europei. Li adoro, sono come dei nipoti, belli, solari. Di questo gruppo ha dato una bella definizione il ranista Nicolò Martinenghi. Generazione Estate. I ragazzi che fanno gruppo in spiaggia. Anch'io ero così, solare con gli amici, infastidita dalla curiosità intorno. Non la capivo. Ho vinto le mie medaglie internazionali a 17 e 18 anni, a 19 me ne sono andata. Ho smesso. I 19 anni dei miei tempi».

Se nuotasse oggi, avrebbe una carriera più lunga?
«Credo che mi ritirerei sempre a 19 anni. Sono stata libera, e lo sono ancora. Ho lo stesso spirito, non saprei sottostare al programma di uno sponsor o di qualcuno che volesse farmi andare avanti, per una gara ancora, e un'altra, e un'altra. Avevo ottenuto quel che volevo, tre medaglie alle Olimpiadi, i Mondiali, 22 record europei: perché avrei dovuto continuare? Volevo altre sfide».

La riga nera sul fondo della vasca è un'ossessione?


«Lo sembra, ma alla fine conduce a un obiettivo. Aiuta a restare concentrati. Non credo ci sia qualcosa che più dello sport porta al benessere mentale. Fa scoprire le proprie capacità e i propri limiti. Insegna a capire che senza fatica non c'è talento».  Leggi l'articolo completo su
Il Mattino