Giordano Rispo: «Io, baby attore sul set con papà Patrizio ma a farmi piangere fu mamma»

Giordano Rispo: «Io, baby attore sul set con papà Patrizio ma a farmi piangere fu mamma»
Per il piccolo Giordano, diversamente dagli altri bambini, andare a Edenlandia con il papà era (quasi) un incubo. Perché il suo lo conoscevano tutti e ogni giostra...

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Per il piccolo Giordano, diversamente dagli altri bambini, andare a Edenlandia con il papà era (quasi) un incubo. Perché il suo lo conoscevano tutti e ogni giostra era una fermata: foto, battute, strette di mano, frizzi e lazzi dei quali Giordano avrebbe fatto volentieri a meno. 

Il prezzo della popolarità.
«Volevo solo divertirmi. E invece si perdeva sempre un sacco di tempo. Ci andavo più volentieri con mamma a Edenlandia: giostre a raffica e senza interruzioni».

Tutta colpa dei fans.
«Il problema di mio padre - o forse la sua qualità - è che non sa dire di no. E allora non si finisce mai. Una volta, perfino a Stoccolma, rimanemmo non so quanto a parlare con una famiglia di italiani che lo aveva riconosciuto: Patrizio Rispo, Patrizio Rispo...».

Però è simpatico.
«Irresistibile direi. Scherziamo e ci divertiamo come potrei fare con un amico. Mia madre dice sempre che lui è il terzo figlio mancato».

Un papà attore.
«Quando ero piccolo non potevo guardare le scene in cui baciava le donne».

Geloso?
«Molto. Mamma corri, vieni a vedere papà che sta facendo in tv. Mi dispiaceva soprattutto per lei. Non riuscivo a capire come facesse a sopportare quel tradimento».

Solo esigenze di scena.
«Certo. Me lo spiegavano tutti, ma continuava a infastidirmi».

E Un Posto al sole??
«Grande soap. Ho recitato anche io. Per un anno».

Quando?
«Avevo sei anni. Il mio nome era Patrizio e in scena interpretavo proprio il ruolo di suo figlio».

Cioè: Patrizio figlio di Patrizio?
«In realtà nella soap, e chi la segue lo sa, mio padre Patrizio si chiama Raffaele. Raffaele Giordano, il mitico portiere di Palazzo Palladini».

Una delle colonne portanti di Un Posto al sole.
«Se senti lui ti dice che dopo migliaia di puntate non esistono più nè Raffaele nè Patrizio, ma una terza entità che ormai è l'insieme di entrambi. Tornando alla mia parte devo ammettere che è stata una bella esperienza anche se faticosa e complicata».

Per quale ragione?
«Ero proprio piccolo. Frequentavo la prima elementare. Le riprese mi obbligavano a saltare giorni di scuola e a sballare completamente la mia vita da bambino. Si girava negli orari più assurdi e bisognava essere sempre pronti. Ricordo una sera in particolare, avevo la febbre a 39, stavo malissimo».

Magari dovevi anche recitare?
«Avremmo dovuto cominciare a girare alle 9 di sera, mi chiamarono invece alle due di notte: gli orari sul set sono sempre orientativi. Naturalmente dormivo e mia madre non aveva alcuna intenzione di farmi uscire a quell'ora e con la febbre».

Quindi niente ciak?
«Invece sì. La scena doveva essere questa: io bimbo rapito e ritrovato dalla polizia. Il regista, pur di non fermare le riprese, propose a mia madre di prendermi in braccio e portarmi in auto con una coperta addosso. Poteva andar bene per simulare il ritrovamento. In ogni caso il patto era che non sarei mai uscito da quell'auto».

E come andò?
«Non mi svegliai nemmeno. Presi coscienza solo un attimo quando - sempre in braccio - qualcuno mi riportò nel mio letto. E però in quella occasione i miei genitori decisero che non se ne sarebbe fatto più niente».

Così si concluse la tua carriera da attore.
«In realtà girai anche L'era legale, un film - con mio padre protagonista - che raccontava le tragicomiche avventure di un personaggio che diventa sindaco di Napoli e sconfigge definitivamente la criminalità organizzata grazie alla legalizzazione delle droghe».

Quale il tuo ruolo?
«Interpretavo mio padre da bambino, avevo circa dieci anni. Non posso dimenticare la scena in cui dovevo piangere per forza e non ci riuscivo».

Manco una lacrima?
«Niente. Il regista era disperato: Fate qualcosa per fare piangere questo bambino urlava come un pazzo».

Quindi?
«Ci pensò mia madre».

In che modo?
«Gio', tuo fratello ti ha rotto la playstation. Scoppiai in lacrime subito: la scena venne benissimo. Mai visto un pianto più vero di quello».

A fare l'attore non ci hai più pensato?
«Col tempo ho scoperto che preferivo stare dietro alla macchina da presa e non davanti».

Ambizioni da regista?
«Intanto sto studiando Scienze della comunicazione, cinema e tv, poi si vedrà. Quel che è certo è che ho due grandi amori: il cinema e la scrittura. Sul set ho già fatto qualche esperienza. Uno stage con Paolo Sorrentino e poi anche uno con Vincenzo Salemme».

Film e libri, insomma.
«Stesse passioni di mio padre. Lui è capace di divorare centinaia di pagine in poche ore. Per non parlare di film e serie tv. Con mamma guardano di tutto, sono incredibili: sperimentano nuovi generi, ripescano roba vecchia».

E tu con loro?
«A volte sono vere e proprie full immersion. Le chiamiamo maratone cinematografiche che vuol dire guardare anche tre film uno dopo l'altro».

Ma è vero che Patrizio Rispo è buddista?
«Mia madre e io siamo buddisti. Lui no. Ogni tanto ci proviamo pure a coinvolgerlo senza grandi risultati. Non ho ancora capito se è un gioco oppure davvero pensa di farci una cortesia: ogni volta che cominciamo a meditare si mette a suonare il tamburo».

Il tamburo?
«Secondo lui crea l'atmosfera».

E secondo voi?
«Ovviamente no, ma va bene così». 

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Il Mattino