Non fu il giorno dello Scudetto. Ma della Storia, quella del Napoli e di Napoli che il 10 maggio dell’87, in una splendida domenica di sole, si unirono nel segno...
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Maradona era un orgoglioso uomo del Sud che aveva voglia di abbandonare la Spagna e di trasferirsi nel campionato più competitivo che c’era, quello italiano, dove affluivano ottimi stranieri dopo la riapertura delle frontiere nel 1980 e dove c’era la nazionale campione del mondo. Non si chiese, Diego, se il Napoli era la squadra giusta per un giovane fuoriclasse in difficoltà: la passione con cui i dirigenti trattarono il suo acquisto, mai mollando la presa, e l’entusiasmo con cui venne accolto al San Paolo il 5 luglio dell’84 lo confortarono sulla scelta che si sarebbe rivelata vincente perché quelli sarebbero stati i migliori anni della sua vita e quel giorno, il 10 maggio dell’87, rappresentò la seconda celebrazione in meno di un anno per il calciatore che nell’estate dell’86 aveva conquistato il Mondiale a Città del Messico, guidando l’Argentina. Un’altra formidabile squadra del Sud che costruì il trionfo in una squallida struttura che si chiamava Club America, che a Maradona non sembrava tanto diversa dal Centro Paradiso, dove si allenava ogni giorno a Napoli: faceva fatica a far entrare la sua Ferrari nel parcheggio.
Nel palmares del Napoli ci sono tre grandi titoli: due scudetti e la Coppa Uefa. Ma lo scudetto dell’87 ha un significato più forte, più intimo, più affettivo. Quello sì che fu il trionfo della città e della squadra, della dirigenza e dell’allenatore. Nell’89 - anno della Coppa Uefa - e nel ‘90 - anno del secondo scudetto - era drammaticamente cominciata la parabola discendente di Diego: i vizi dell’uomo avevano irrimediabilmente schiacciato la classe del campione. A distanza di trent’anni si ricordano in maniera nitida quei giorni di Maradona e del Napoli. Fanno per sempre parte della nostra memoria, li consideriamo un bene collettivo. L’esplosione di felicità di quel pomeriggio, al fischio finale della partita con la Fiorentina (a segno Carnevale, poi il pareggio viola firmato dal ventenne Baggio), rappresenta una delle pagine più belle della Storia della città, che diventò tutta azzurra, un’unica grande festa da Fuorigrotta ai quartieri alti, dal centro storico alle periferie. I tricolori vennero issati sulle statue di piazza Garibaldi e piazza Dante, i dipendenti del San Carlo scrissero su uno striscione che quello scudetto era la Decima di Beethoven. La sociologia e la oleografia dominarono in quelle ore di felicità. Si parlò di riscatto sociale e in un certo senso lo era. «Noi battemmo quelli del Nord per la prima volta»: si riempie ancora d’orgoglio Maradona, adesso che ha 57 anni ed è nonno, quando racconta quella stagione.
Lui è stato il Capitano, il pilastro della squadra che aveva eccellenti interpreti, acquistati nel tempo da Ferlaino e dai suoi due collaboratori, i manager Italo Allodi e Pierpaolo Marino. In panchina Ottavio Bianchi, che era stato centrocampista del Napoli. Era affascinato da Napoli, l’amava, tuttavia ne temeva gli sbalzi d’umore. Ed ecco perché mise la maschera dell’allenatore burbero finché, quella domenica, non scesero le lacrime dai suoi occhi azzurri. Aveva ragione Diego, uomo del Sud America: era la vittoria del Sud e infatti nel Napoli campione d’Italia c’erano otto calciatori campani. Dall’ex capitano Beppe Bruscolotti, che aveva consegnato la fascia al sommo argentino come promessa per lo scudetto («Tra un po’ smetterò, aiutami a vincerlo»), al futuro capitano Ciro Ferrara. A quei tempi si assegnavano due punti a vittoria e gli azzurri ne conquistarono 42, tre in più della Juve e quattro in più dell’Inter. Quindici vittorie e dodici pareggi, davvero tanti, ma Bianchi - un bresciano concreto - guardava più al risultato che allo spettacolo, benché quelli di Maradona, Giordano e Carnevale - in attesa del brasiliano Careca arrivato dopo lo scudetto - fossero strepitosi. Nella vittoria chiave della stagione, quella del 9 novembre dell’86 sul campo della Juve, non vi fu il sigillo di Diego. Un’esplosione di felicità nel vecchio stadio Comunale, dove s’erano radunati ventimila e più napoletani. Tre gol negli ultimi diciassette minuti: fu la prima rivincita dopo anni di amarezze, l’Avvocato Agnelli si recò negli spogliatoi per rendere omaggio ai futuri campioni d’Italia. La Juve era il tormento del Napoli e dei napoletani. Invincibile, sembrava. Fino a quella domenica che fece capire anche al più pessimista o scaramantico dei tifosi che era l’anno giusto, dopo un avvio preoccupante, con il caso Sinagra che molto turbò Maradona (ha riconosciuto Diego junior dopo trent’anni) e l’eliminazione dalla Coppa Uefa.
Tante scintille in sessant’anni di storia si erano accese. Bastava l’acquisto di un calciatore, uno solo, e partiva la corsa all’abbonamento per le partite, un blocchetto con 15 preziosi tagliandi su cui era stampata la «N» borbonica. Migliaia di tessere, testimonianza di una speranza che si rinnovava anno dopo anno. Al San Paolo non si scendeva mai al di sotto dei sessantamila spettatori: si arrivava ai novantamila per le sfide contro la Juve e, anni dopo, per gli scontri diretti per la salvezza. La scintilla diventò fuoco in quella stagione, cominciata a Brescia con un gol di Maradona e finita con il pareggio al San Paolo, in anticipo di una giornata sulla chiusura del campionato. La festa sarebbe durata una settimana, fino all’ultima partita ad Ascoli e alla celebrazione nell’Auditorium della Rai, dove si riunirono gli artisti più prestigiosi per rendere omaggio alla squadra. Una melodia azzurra che portiamo ancora oggi nel cuore perché in quel giorno di maggio si spezzò l’incantesimo e Napoli, non solo il Napoli, urlò finalmente con tutto il suo orgoglio: primi, siamo primi.
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Il Mattino