Cantautore, ma elettronico, anzi electrocantautore: Marco Jacopo Bianchi da Ivrea, per tutti semplicemente Cosmo, classe 1982, sta agitando le acque del pop italico, come non...
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Su due cd, ma c’è anche la versione in vinile, «Cosmotronic» aggiorna l’estetica sonica già delineata con i due precedenti lavori su etichetta 42Records/Believe: «Disordine» del 2013, primo parto solista dopo l’avventura indie rock con i Drink To Me, e «L’ultima festa» del 2016. Qui, tra brani cantati e strumentali, il sound è come un flusso pensato per essere mixato dal vivo, come una sequenza ininterrotta: «Dico quello che penso, oggi è San Valentino, mi sento un cretino non sono romantico», canta Cosmo, che se deve dedicare un brano a una donna le dice, su un beat spietato, «Sei la mia città» e poi, annunciando il ritorno dall’eterno tour, le promette pornoromantico: «Ti vengo dentro e se succederà qualcosa nascerà». Intanto in tour, tra i gadget tirano molto i preservativi con la scritta «Ti vengo dentro», appunto.
Battisti («Panella gli forniva versi impossibili che lui riusciva a far quadrare in musica»), Battiato, M.I.A., Animal Collective e Grimes i punti di riferimento individuati finora, ma un brano come «Animali» campiona «La Gatta Cenerentola» di De Simone: qualche dj l’aveva già fatto, ma Cosmo azzarda un loop aggressivo, «selvaggio, fighissimo. Ho scoperto quel pezzo per caso, in rete, non ricordo se su YouTube o Facebook».
Chansonnier digitale, Marco Jacopo mette il «Turbo» e guarda più ai nordici Subsonica che ai sudisti Planet Funk nella convinzione che «la club culture mi appartenga, parli del recupero di una ritualità tribale in questi tempo di declino postcapitalistico». Insomma, anche attraverso il dancefloor si possono dire cose serie, ammesso che l’amore, il sesso e lo stordimento siano meno serie. Tanto, lui parte «dalla musica, ma nel senso che prima compongo: smanetto un po’, parto da un beat della drum machine, da un giro di basso, da un tappeto che tiro fuori dal mio hardware, lo preferisco al software. Poi, quando tutto è pronto, quando l’arrangiamento è chiaro, cerco dentro di me le uniche parole possibili per quel groove, per quel richiamo fisico». Per quelli più complicati c’è sempre «Tristan Zarra», che può passare per sperimentazione divisa con parenti, amici e colleghi come Francesca Michielin, Calcutta e Giacomo Laser, oppure come cazzeggio libero: «Mi sono divertito un mondo, ho riso moltissimo, mi sono sentito libero come mai, fuso come mai, un delirio in cui ho raccolto le idee più stupide e illuminanti che mi siano mai venute in testa». «Festival, polizia polizia, grazie a dio, grazie a dio, pizzeria pizzeria», parole al vento che trovano un senso nella scansione che ci ricorda come lui, «più che un cantautore», si senta «vicino all’uso delle parole, e del ritmo, che fanno i rapper». Benvenuti nel mondo cosmotronico, «dove il mio disco è un party che continua, meglio, in concerto». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino