Il suo ultimo album, «Capitan Capitone e i parenti della sposa», è uscito appena prima dell’estate ed è sold out: Daniele Sepe ha pubblicato sulla...
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Credo?
«Sì, come dice il titolo è davvero un disco perso, l’avevo dimenticato, l’ho ritrovato per caso frugando in vecchi hard disk alla ricerca di ben altri materiali: quando è saltato fuori l’ho riascoltato con curiosità, in fondo soddisfatto di quel suono così fresco, anche se datato».
Dopo i due episodi con il mucchio selvaggio newpolitano di Capitan Capitone qui torna il Sepe davisiano, jazz rock, ispirato da Weather Report ed Area.
«Certo: dentro c’è la mia fissa per “Bitches brew” e “On the corner”, ma anche una mediterraneità mai corriva, un’attenzione alle musiche del mondo che ha caratterizzato tutta la mia produzione, prima e dopo».
Proviamo a ricordare le sedute di registrazione?
«Entrai in studio senza nulla di scritto, di composto, ma con una fissa che mi caratterizza ormai, quella di riunire un gruppone di musicisti».
Qui non ci sono i «nipotini», le giovani leve dei «Fratelli della costa», ma una sorta di «nazionale» del jazz partenopeo, una big band elettrica e molto fisica.
«È vero: due batterie, Salvatore Tranchini e Lello Di Fenza; al basso e al contrabbasso Aldo Vigorito, Lello Petrarca e forse anche Vittorio Pepe; al sax oltre a me c’era Marco Zurzolo, cosa rara; alle tastiere Piero De Asmundis, Francesco D’Errico e un terzo musicista non identificato; alle chitarre Francesco Giacoia e Antonio Onorato; al violino Lino Cannavacciuolo; alle percussioni Marzouk Mejiri e, mi pare, anche Peppe Sannino. E se ho dimenticato qualcuno mi scuso».
I due volumi di Capitan Capitone sono andati bene, sia sul fronte delle vendite - ti autoproduci con il sistema del crowdfunding, ricompensando i «preacquirenti» con gadget che vanno dalla maglietta al pad per il mouse - che degli spettacoli live. Perché abolire il formato fisico di «The lost album», che tra l’altro vanterebbe una splendida copertina di Pasquale «Squaz» Todisco?
«Perché il cd è morto. Prendi uno come Andrea Tartaglia, che fa musica, che vive di musica, che si è arruolato nella mia ciurma di pirati eversivi e scapocchioni: lui un lettore cd non lo possiede nemmeno. Prendi una macchina nuova: monta lettori usb, non certo per cd. Come i computer ormai».
Meglio il vecchio vinile?
«In qualche modo sì, anche se è un controsenso, perché - checchè se ne dica in giro - il cd suona meglio, costa di meno e ha molto più spazio per la musica. Però, in qualche modo, l’lp è un oggetto che predispone all’ascolto più attento, ha il fascino della copertina... Ma il problema è un altro: il mio disco che ha venduto in più, l’antologia “Viaggi fuori dai paraggi”, è arrivato a 52.000 copie, oggi un disco che vendesse 5.000 copie sarebbe un successone».
Come mai «The lost album» è rimasto fino ad oggi nei cassetti?
«Boh! A quei tempi viaggiavo al ritmo di un paio di album all’anno: forse l’ho registrato, mi sono congratulato con me stesso e i miei musicisti poi... mi sono tuffato in un nuovo progetto e... dimenticato! Non meritava però di restare nei cassetti, tra le svisate sul “Geghegè” e canzoni come “Ah Mustapha”, che faccio anche dal vivo, quando la formazione lo permette. Chi lo vuole lo trova sulle piattaforme on line».
Ci sarà un terzo capitolo delle avventure capitonesche?
«Forse sì, magari concentrandomi meno su Napoli, arruolando una ciurma più “forestiera”: vedremo». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino