D’Amico in webtv: «Così fondo il rap con la classica»

Ogni tanto anche nel rap qualcuno si ricorda di fare qualcosa di nuovo. Come Jacopo D’Amico, milanese, classe 1980, meglio noto come Dargen D’Amico, e in passato anche...

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Ogni tanto anche nel rap qualcuno si ricorda di fare qualcosa di nuovo. Come Jacopo D’Amico, milanese, classe 1980, meglio noto come Dargen D’Amico, e in passato anche come Corvo d’Argento, che confessa che alla base del suo nuovo album, «Variazioni», presentato l’altro giorno alla Mooks di piazza Vanvitelli, c’era «una voglia di originalità. Non so se nessuno ha mai provato prima a declinare l’hip hop in chiave classica, nel senso di musica classica. Ricordo un Kanye West con orchestra, ma questo è un azzardo diverso, più profondo».


Non dice il falso l’artista di «Musica senza musicisti» e «Di vizi di forma virtù», peraltro con un passato anche da cantautore freak: il disco, edito dalla sua etichetta Giada Mesi e prodotto non a caso da un illuminato come Tommaso Colliva dei Calibro 35, unisce nuovi brani a variazioni su suoi pezzi dei dischi precedenti e li adagia sul pianoforte di Isabella Turso, formazione accademica e tocco ispirato. Un progetto almeno stilisticamente importante: le cadenze non cercano appoggi ritmici, o li trovano in quelli dei tasti bianchi e neri, con archi e fiati a fare corpo dove di solito domina il suono digitale: «Ero abituato a comporre al computer, a trovare i suoni per il mio flusso di parole nelle macchine, Isabella, brava quanto bella, mi ha costretto ad usare diversamente il flow, a mettere i miei versi al servizio della melodia, se possibile, alla faccia degli integralisti».
 
Senza perdere il suo piglio metrico, guardando alle tradizione del talkin’, dei reading poetici, ma anche a certe soluzione jovanottiane, Dargen inserisce la sua sfida unplugged «in un momento in cui il rap diventa trap e sfonda, diventa mainstream e sfonda, ma forse imita troppo. Non ho mai creduto esistesse una sola scena, un solo suono, una sola scuola, anzi: mi piace che ci sia chi va a Sanremo e chi si chiude nella purezza underground, ma ho paura della ripetitività».


Eccolo, allora, accettare il rischio dell’invito «in rassegne da camera, in festival colti. Spero di non sembrare l’elefante della cristalleria, ma potrebbe essere divertente anche quel ruolo». Intanto, ricorda come è approdato sul pianeta hip hop: «Ero alle medie e restai folgorato dal primo lp dei Public Enemy, “Yo! Bum rush the show”: l’ultima traccia era strumentale, così potevi metterti a rappare sopra». E gli italiani? D’Amico cita due capisaldi, entrambi prodotto discograficamente a Napoli, dalla storica Flying Records: «Strade di città» degli Articolo 31 e «Curre curre guaglio’» dei 99 Posse: «Il dialetto partenopeo ha la dignità letteraria di una lingua, ma nell’hip hop è anche meglio: è pieno di parole tronche e suona straordinariamente bene». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino